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Gli scontri tra manifestanti e polizia durante le proteste a Roma

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Le dure proteste scoppiate negli ultimi giorni in tutta Italia si sono affiancate ad altre manifestazioni, organizzate dai lavoratori del mondo dello spettacolo; questi ultimi hanno infatti lanciato una petizione rivolta alle autorità, richiedendo loro di rivedere le disposizioni dell’ultimo DPCM, relative alla chiusura di cinema e teatri. Una forma di dissenso certamente più pacata, relativa ad un intero settore che, tuttavia, è stato scarsamente tenuto in considerazione durante questi mesi. Con la chiusura di cinema e teatri, l’intera industria culturale ha infatti ulteriormente risentito degli effetti della pandemia, che rischia adesso di pesare su categorie che erano economicamente fragili già prima dell’emergenza sanitaria. La necessità di interrompere l’attività dei luoghi di intrattenimento si basa su considerazioni relative soprattutto al ruolo “secondario” ricoperto da tali ambienti, che, pertanto, durante una fase sì delicata, sono visti unicamente come potenziali luoghi di contagio. Il dibattito tra chi sostiene queste misure e chi invece ne sottolinea la gravità ha tuttavia prodotto considerazioni differenti che avallano o meno l’utilità culturale.

Il ministro Franceschini ha definito “stucchevoli” queste polemiche, considerando superflua l’attività culturale ed invitando i cittadini a rinunciarvi, dichiarazione che è stata interpretata dai più come sintomatica di ignoranza e mancanza di sensibilità da parte delle istituzioni. Purtroppo, la scarsa considerazione che la classe politica italiana ha del mondo delle arti è un tema già noto. Che si voglia o meno riconoscere la centralità della cultura nella formazione dei singoli individui, la questione al momento ha assunto un carattere ben più pratico. Se la dignità professionale di chi opera in questo settore è intaccata, più che di questo si dovrebbe parlare di posti di lavoro. La polarizzazione del dibattito, purtroppo, sottolinea un conflitto tra chi è maggiormente allarmato per l’andamento epidemiologico e chi, non avendo un reddito garantito ed essendo concretamente a rischio di perdita economica, non può permettersi di sostenere tali misure. Molti hanno sollevato dubbi sui dati diffusi da uno studio che, negli ultimi giorni, rileva la presenza di un solo positivo tra gli spettatori (circa 350.000) degli spettacoli dal vivo andati in scena tra giugno ed ottobre e che sottolineerebbe pertanto l’inutilità della chiusura delle sale. Le perplessità riguardano l’esattezza di questi numeri, calcolati in base ai dati raccolti da IMMUNI, applicazione che sta facendo discutere per la sua scarsa efficacia nel tracciare l’effettiva linea di contagi; ciononostante, è indubbio che il numero degli spettatori (tra eventi annullati e la diminuzione dei partecipanti agli spettacoli) sia stato notevolmente ridotto negli ultimi mesi. Sembra pertanto poco risolutivo che, sottolineata la necessità di evitare assembramenti, si sia pensato di chiudere quei luoghi che già da tempo ospitano un esiguo numero di cittadini, mentre tali restrizioni non sono state applicate – ad esempio – ai centri commerciali.

Chi sottolinea – a motivo – la gravità del momento, si limita tuttavia a sospendere le attività economiche alla sera, ignorando la pericolosità degli assembramenti diurni in quegli stessi luoghi. Una soluzione che sembra quantomeno di dubbia efficacia. Il periodo che stiamo vivendo è estremamente delicato, probabilmente anche più dal punto di vista sociale che sanitario (che resta preoccupante). Se durante la prima ondata le misure restrittive sono state accettate con un grande sforzo collettivo da larga parte della popolazione, oggi non è più così. Se lo scorso inverno la gente cantava dai balconi, adesso protesta nelle piazze, non potendo più sostenere economicamente il peso di una cattiva gestione della pandemia. Il punto non è quindi il ruolo ricoperto dalla cultura, ma a che prezzo immobilizzare un intero settore, provando economicamente chi vi opera, per ottenere forse un esiguo miglioramento del numero dei contagi. Il dibattito non è stucchevole, ma è ipocrita.

Lo Stato, che proprio in questa fase dovrebbe fare massicci investimenti per far ripartire il Paese, risulta totalmente assente e poco lungimirante. Per far fronte alla crisi economica non bastano i bonus, i mille euro a testa per i lavoratori dello spettacolo, servono misure serie per quei settori provati dall’emergenza. Soprattutto, qualora la nostra classe politica non avesse la sensibilità per comprenderne il peso, sarebbe bene avesse abbastanza lungimiranza da comprendere che la scuola e la cultura sono settori strategici su cui investire in modo prioritario. Questo qualora non volessimo considerare i benefici che la cultura apporta su una quotidianità stravolta, ora che appariamo quasi più consumatori che individui. L’iniquità delle misure adottate ha aperto una frattura sociale profonda che rischia di rendere ancora più dura una fase storica che, già di per sé, sarà devastante.


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