Dall’annuncio di Conte alla positività dei due turisti cinesi, al paziente zero in Lombardia, alle salme nei camion militari
9 minuti per la letturaIn principio sono stati i social a raccogliere le paure degli italiani per l’epidemia di Covid19 proveniente dall’estremo oriente. Il 28 gennaio la malattia ancora si diffondeva a macchia d’olio nella popolosa città di Wuhan ma il rapido emergere di hashtag come #coronavirus, #virus e #viruschina dava il polso di una psicosi in espansione, sull’onda dei titoli allarmistici di giornali e tv. Un paio di settimane prima (il 12 gennaio), in effetti, l’Organizzazione mondiale della sanità aveva confermato di essere stata informata del patogeno a fine 2019 e che lo stesso era causa di una nuova infezione popolare.
Il 31 gennaio l’incubo si affaccia in Italia quando il premier, Giuseppe Conte, annuncia che due turisti cinesi a Roma sono risultati positivi all’infezione. La coppia viene ricoverata all’ospedale Spallanzani in condizioni gravissime e, contemporaneamente, viene avviato il tracciamento dei contatti per verificare se abbiano trasmesso la malattia. I riscontri negativi sembrano ridimensionare il fenomeno, i toni si fanno più rilassati, e sono numerosi i politici che escludono un’epidemia di vaste dimensioni nel nostro Paese. All’apparente calma ritrovata fa da sfondo la crescente diffidenza nei confronti della comunità cinese che spesso sfocia in veri e propri episodi di intolleranza.
Ma l’illusione di essere al sicuro finisce il 21 febbraio, quando un 38enne di Codogno (nel Lodigiano) è positivo al tampone: è il paziente 1. O almeno così si pensa allora, perché la velocità con cui sembra propagarsi il virus farà sorgere il dubbio che l’infezione sia già presente in Italia da tempo, celata fra le migliaia di polmoniti portate ogni anno dalla stagione fredda e per le quali si rende necessario l’accesso ai pronto soccorso. Ed è lì, nei presidi sanitari primari, che il patogeno – non riconosciuto per tempo – si diffonde rapidamente. Una settimana prima, il 14 febbraio, 50mila tifosi dell’Atalanta avevano assistito assiepati a San Siro alla gara d’andata degli ottavi di Champions League contro il Valencia. Un’occasione di festa che potrebbe essere stata la “partita zero”, la prima tessera del micidiale domino che si scatenerà su Bergamo nei mesi a seguire. Dopo la Lombardia anche il Veneto comincia ad aver paura, quando a Padova si registra la prima vittima italiana di Covid19, un 78enne di Vo’ Euganeo, altro focolaio dell’infezione.
Il 23 febbraio sono 11 le zone rosse in Italia e la protezione civile comincia a comunicare quotidianamente in conferenza stampa i dati sull’andamento dell’epidemia. Ma una parte della politica continua a sostenere che il Paese non possa fermarsi. Attivo sul fronte il sindaco di Milano, Beppe Sala, che a fronte di una possibile crisi economica vede sgretolarsi il modello di efficienza e modernità meneghino. Viene lanciato l’hashtag #Milanononsiferma per invitare la popolazione a non farsi scoraggiare, a continuare a contribuire alla costruzione della rinascita milanese.
All’ombra del Duomo arriva anche il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, per partecipare a un aperitivo sui Navigli insieme ai militanti dem. Il leader vorrebbe rassicurare la comunità; dieci giorni dopo risulterà positivo al Sars-Cov-2. La situazione si aggrava, crescono contagi e vittime, il 4 marzo vengono chiuse le scuole su tutto il territorio nazionale, il 7 l’intera Lombardia diventa zona rossa, l’8 si disputa a porte chiuse quella che sarà l’ultima partita di campionato prima della sospensione: il derby d’Italia fra Juventus e Inter. Il governo capisce che non può più aspettare: il 9 marzo Conte si presenta in tv a tarda sera e annuncia la creazione di una “Italia zona protetta”, è l’inizio del lockdown. Chiuse numerose attività, vietati gli assembramenti, promosso lo smart working quasi ovunque, ci si può muovere dalla propria abitazione solo per motivi di assoluta necessità e con autocertificazione alla mano. Ormai è chiaro: Il Bel Paese è l’epicentro occidentale dell’epidemia. La Lombardia è la regione più colpita, i contagi sono migliaia, i morti centinaia. Il 18 marzo una scena da film apocalittico fa il giro dei social: i camion dell’esercito che trasportano le bare lungo le strade di Bergamo, verso il cimitero. È l’immagine simbolo della tragedia, insieme a quella del Papa che prega per il mondo afflitto dall’epidemia in una piazza San Pietro vuota sotto la pioggia.
Il 17 marzo il governo interviene con il primo pacchetti di aiuti, volti a ridimensionare i danni all’economia e proteggere le persone più fragili. Il decreto di chiama “Cura Italia” e vale 25 miliardi. Fra le misure anche 600 euro assicurati a partite Iva e professionisti iscritti alla gestione separata. Anche il sito dell’Inps, però, si ammala e va in crash, fra le proteste dei cittadini. Gli italiani, però, sembrano accettare la sfida, si affacciano dalle finestre, intonano l’inno, inscenano flash mob dai balconi organizzati sui social network. Il 21 marzo si registra il picco di casi in un solo giorno, 6.557. Il numero massimo di vittime si avrà il 27 dello stesso mese, quando a perdere la vita saranno in 969. Nel frattempo si erano strette ancor di più le maglie del lockdown: dopo aver già chiuso i parchi e vietato lo sport se non nei pressi della propria abitazione, il 22 marzo l’esecutivo sospende tutte le attività non essenziali e obbliga i cittadini a restare nel proprio Comune di residenza.
A metà aprile lo spirito di solidarietà nazionale con cui gli italiani avevano affrontato le prime settimane di lockdown comincia a perdere colpi. Sui social l’opinione pubblica si divide in due, da una parte i rigoristi – spaventati dalle notizie che vengono dal Nord – pronti a condannare qualunque comportamento anche solo percepito come pericoloso, segnalandolo agli utenti e alle autorità. Hanno paura delle poche persone a passeggio, di chi non indossa la mascherina, persino dei bambini che fanno il giro del palazzo mano nella mano con i genitori. Dall’altra gli scettici, che cominciano a farsi un’opinione personale dell’epidemia, danno credito a chi ridimensiona il fenomeno, vedendo profilarsi – dopo il virus – l’ombra della crisi economica.
La chiusura totale non può protrarsi a lungo, questo è chiaro sin da subito al governo che, forte di un primo deciso calo dei contagi e dei ricoveri in terapia intensiva si mette al lavoro sulla Fase 2, quella della convivenza con la malattia. Nel frattempo l’Italia non è più il lazzaretto dell’Occidente, gli Stati Uniti ci superano per numero di infezioni, la Spagna ci tallona. C’è margine per ragionare sulle riaperture. Non prima di maggio però. E infatti il 26 aprile Conte annuncia per il giorno 4 del quinto mese dell’anno un primo allentamento del lockdown. Quattro milioni di italiani potranno tornare al lavoro, si potrà ricominciare a circolare liberamente entro i confini regionali (sempre con autocertificazione) e, soprattutto, sarà consentito fare visita ai congiunti. Parola sin troppo vaga che scatena polemiche e interpretazioni. Si tratta solo dei familiari ristretti o anche dei parenti alla lontana? E gli amici di vecchia data? E i fidanzati? Alla fine il governo pubblicherà della faq sul proprio sito per fare chiarezza.
Mentre si attende di capire se la prima ondata di riaperture avrà effetti negativi sulla curva dei contagi il mondo imprenditoriale cerca una boccata d’ossigeno con il nuovo pacchetto di aiuti, varato il 7 aprile. Obiettivo del Decreto Liquidità è consentire alle aziende di avere accesso al credito grazie alla garanzia statale, che parte dal 70% e può arrivare al 100 solo per i mini prestiti fino a 25mila euro. Alla vigilia del 18 maggio (quando di fatto il lockdown sarà archiviato) è ormai chiaro che il Paese è spaccato in due. Al Nord (in particolare in Lombardia) il virus continua a infuriare, sia pur con numeri inferiori, al Centro e al Sud l’intensità è inferiore e tende verso l’azzeramento, almeno in alcune regioni. Cominciano così a uscire primi studi su possibili effetti dell’incipiente estate sull’andamento della pandemia, sul ruolo svolto dall’inquinamento atmosferico nella veicolazione del virus. E non manca chi, specie in rete, paventa la possibilità di mantenere la chiusura totale solo nei territori settentrionali più colpiti.
Il lockdown, però, cessa per tutti. Riaprono bar e ristoranti e molte altre filiere produttive. Cade l’obbligo dell’autocertificazione per spostarsi all’interno della propria regione. Si possono tornare a celebrare in pubblico le funzioni religiose. Resta la distanza di un metro. Quanto alle mascherine alcune regioni ne impongono l’utilizzo anche all’aperto, se non si riesce a restare distanti. Lo stesso giorno Palazzo Chigi vara il Decreto Rilancio, valore 55 miliardi, lo stesso di due manovre finanziarie. Con le ripartenze l’umore generale sembra migliorare, i giorni dell’incubo sembrano alle spalle. Dalla Francia arrivano notizie che potrebbero cambiare la storia della pandemia. In Francia si scoprono casi di positività al virus risalenti al 27 dicembre, a Milano il Politecnico pubblica una ricerca dalla quale emerge che un donatore di sangue su due aveva sviluppato gli anticorpi al patogeno quando l’epidemia in Italia sembrava ancora alle sue fasi iniziali.
Chi resta chiuso spinge per una rapida riapertura. Dal 25 maggio si può tornare in palestra e si comincia a lavorare per una piena ripartenza dei campionati di calcio, ovviamente a porte chiuse. Il 2 giugno, per la Festa della Repubblica, Mattarella sale le scale del Vittoriano con la mascherina sul volto e rende omaggio al Milite Ignoto. Il giorno dopo cadono i limiti agli spostamenti fra regioni spalancando le porte alla stagione estiva. Il 12 giugno il calcio riprende con la Coppa Italia, seguirà il 20 la Serie A. Il 21 luglio il Consiglio europeo trova l’accordo per il Recovery fund, all’Italia andranno 209 miliardi, fra prestiti e sussidi. L’Iss, intanto, settimanalmente aggiorna sull’andamento dei contagi nelle regioni. Dopo una fase di quiete ad agosto i dati hanno ricominciato a crescere. Almeno un migliaio i nuovi focolai, innescati da casi d’importazione, movida e un generale calo dell’attenzione. Matura così la nuova stretta del governo su discoteche e sale da ballo, chiuse su tutto il territorio nazionale da oggi al 7 settembre. Con la stessa ordinanza il ministro Speranza ha fissato l’obbligo delle mascherine anche all’aperto, nella fascia oraria 18-6 del mattino, quando non è possibile mantenere la distanza. Preoccupano infine i rientri dalle vacanze nei Paesi dove la curva dell’epidemia si è attestata su livelli allarmanti, come Spagna, Grecia, Malta e Croazia. E se un altro lockdown nazionale resta improbabile non possono essere escluse chiusure limitate ai territori più interessati. Se i dati non dovessero cambiare, ha avvertito l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, la riapertura delle scuole in programma a settembre potrebbe essere a rischio.
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