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“Uno shock senza precedenti”: viene definita così dalle maggiori testate giornalistiche la crisi che ha travolto l’Italia e continuerà a farlo per i prossimi anni.
La causa è nota a tutti: il Coronavirus ha costretto la maggior parte dei lavoratori a rimanere a casa per ben due mesi. Ed alcuni, dopo il famoso lockdown che ha bloccato non solo l’Italia, ma tutto il mondo, non sono più tornati sul loro posto di lavoro.
La crisi si percepisce passeggiando per le città: attività chiuse, ristoranti costretti a dimezzare i coperti con effetti che si ripercuotono sul personale impiegato, città d’arte normalmente invase dai turisti, anche in piena estate, ormai spettrali.
Tutti i settori sono stati colpiti indistintamente da questo virus che ha messo in ginocchio il mondo intero: l’artigianato, il turismo, il settore legale, le grandi aziende.
Qualche giorno fa ero in un negozio di scarpe nel pieno centro di Milano, gestito da un vecchietto molto disponibile e gentile, oltre che logorroico. Mi ha confessato che gli orari di apertura della sua attività sono nettamente diminuiti a seguito del lockdown, perché la città è vuota e vi è una grandissima difficoltà anche a vendere un paio di scarpe a prezzo di costo. Gli uffici sono ancora in modalità smartworking ed i clienti sono restii a spendere soldi. Per loro, produttori delle scarpe che vendono, il problema è marginale, perché sono riusciti a limitare i danni bloccando la maggior parte della produzione primaverile. Ma il problema è notevole se si guarda a tutte le restanti attività.
Molte sono le persone a cui non è stato rinnovato un contratto o che, come i lavoratori autonomi, brancolano nel buio. E, come evidenziato dall’Istat, la situazione andrà peggiorando.
Se solo a maggio si registrano già 84mila occupati in meno, ben il 12% delle imprese è propenso a ridurre l’organico quando terminerà la cassa integrazione ed il blocco dei licenziamenti. Tra questi, i maggiori tagli si avranno tra le piccole imprese, addirittura sopra la media, con il 13%, e le microimprese con il 12%. La problematica maggiormente afflittiva per le piccole imprese e le microimprese riguarda proprio l’assenza di liquidità che non permetterebbe alle stesse di fronteggiare tutte le spese dovute nel 2020.
Come emerge dall’indagine Istat sulle Prospettive per l’economia italiana nel 2020-2021, per il 2020 il Pil segnerà un netto crollo. Una ripresa minima si potrà avere solo nel 2021, ma i dati non sono comunque confortanti.
Le misure restrittive, applicate nei primi mesi dell’anno, hanno comportato la sospensione delle attività svolte in settori in cui sono presenti ben 2,1 milioni di imprese. Le aziende che hanno dovuto chiudere i battenti per i primi mesi dell’anno rappresentano quasi la metà del fatturato totale delle attività economiche italiane. Per di più, si tratta di attività che si presentavano già a rischio, dovendo fronteggiare la crisi che affliggeva il mercato Italiano, su cui il COVID ha messo il carico da novanta.
Il blocco delle attività ha sin da subito prodotto effetti con riguardo al numero dei lavoratori occupati che si è ridotto da febbraio a maggio di più di mezzo milione di persone. Si tratta di un numero che tiene ancora conto del blocco dei licenziamenti e, quindi, considera soltanto tutti quei contratti a tempo determinato che sono scaduti senza essere rinnovati, oltre al settore dei lavoratori autonomi che rientra tra le categorie maggiormente colpite.
Il crollo della produzione, inoltre, è notevole soprattutto con riguardo a quei beni non di prima necessità che rientrano tra quelli maggiormente costosi: ad esempio elettrodomestici e automobili che hanno registrato un calo ad aprile dell’85% rispetto al periodo precedente il lockdown.
La fascia maggiormente colpita è quella dei giovani che continuano tutt’oggi a risentire degli effetti della crisi economica del 2008 e che troveranno davanti a loro un mercato lavorativo totalmente in crisi.
Le opportunità di lavoro sono notevolmente diminuite: gli occupati tra i 25 ed i 34 anni si sono ridotti di più di un milione e mezzo. Per non contare i “giovanissimi” occupati fino ai 24 anni ridotti di mezzo milione. I più giovani, peraltro, non hanno potuto molto spesso usufruire degli aiuti statali, in quanto svolgenti lavoro a nero. Questo è un altro dato sconcertante dell’indagine Istat: circa un lavoratore su dieci, soprattutto appartenente alla fascia di età tra i 15 ed i 24 anni o tra gli ultra 65enni, è stato travolto dal blocco lavorativo senza poter trovare sostegno nelle misure di aiuto statali, perché non in possesso di un regolare contratto di lavoro.
Oltre ai giovani, le donne sono il secondo gruppo maggiormente colpito dal virus. Infatti, se nel mese di maggio è stata registrata una riduzione dell’impiego medio dello 0,4%, le percentuali relative al gentil sesso sono sette volte maggiori rispetto a quelle degli uomini. Le donne rappresentano ben lo 0,7% contro lo 0,1% degli uomini, pari rispettivamente a meno 65mila lavoratrici e meno 19mila lavoratori.
Inutile chiedersi il perché le fasce maggiormente colpite dalla crisi siano i giovani e le donne. Le risposte sono già state a più riprese fornite dalla storia del nostro Paese. Una storia che ha portato la maggior parte dei giovani a tentare la loro fortuna all’estero; che ha alimentato spesso e volentieri il fenomeno della fuga dei cervelli; che ha portato le donne ad essere sottopagate rispetto ai loro colleghi uomini; che ha portato all’introduzione delle quote rosa, strumento a mio avviso ancor più discriminatorio, perché la vera uguaglianza lavorativa dovrebbe essere nella meritocrazia. Una storia che, ancora una volta, ci mostra la sua ciclicità, con up e down continui.
E l’unica cosa che possiamo fare è rimboccarci le maniche per uscirne più forti di prima.
Perché, nonostante durante questa quarantena abbiamo riscoperto i valori della famiglia ed abbiamo ritrovato la felicità nelle piccole cose, è inutile negare che il lavoro rappresenta la nostra identità.
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