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Da quando è esplosa la pandemia i medici si sono ritrovati ad affrontare un nemico invisibile e a combattere con tutte le loro forze. Oggi vi racconterò l’esperienza di Dario Cani, giovane cardiologo siciliano.

Parlaci di te e del lavoro in prima linea.
Mi sono specializzato a novembre 2019 in Malattie dell’apparato cardiovascolare.
Dopo alcuni mesi di attesa durante i quali ho lavorato in altre strutture, il 2 marzo sono stato assunto presso la Cardiologia degli Spedali Civili di Brescia, dove avevo da poco terminato il mio percorso di specializzazione. La mia esperienza COVID inizia tre giorni dopo l’assunzione, il 5 marzo, quando durante un turno di guardia vengo chiamato nella sala delle emergenze del pronto soccorso per un arresto respiratorio. Si scoprirà il giorno dopo che il paziente in questione era positivo al SARS-Cov2, virus responsabile della sua insufficienza respiratoria acuta e della pandemia che stiamo vivendo. Quel paziente è stato uno dei primi casi in Ospedale. Due giorni dopo eravamo già in piena emergenza e ho iniziato a prestare servizio in una delle Unità COVID create ad hoc in poco tempo.

Quando vi siete accorti della gravità della situazione? E come mai il contagio si è diffuso così rapidamente al Nord?
Il livello di allerta si è alzato i primi di marzo, quando ci si è resi conto che il contagio non era limitato solo alle prime zone rosse identificate. La rapida diffusione al Nord è da attribuire alla contagiosità del virus e ai flussi lavorativi, estremamente alti nelle città ad oggi più colpite. Per la mortalità è doveroso fare un discorso a parte. A oggi è difficile farsi un’idea della vera mortalità, perché non abbiamo un’idea reale del numero totale di contagiati, essendo buona parte di essi asintomatici. La mortalità è influenzata dal numero totale di tamponi eseguiti. Se i contagiati fossero molti di più di quelli accertati con il tampone allora il tasso di letalità sarebbe inferiore a quello considerato.

In che modo il cuore viene colpito dal virus?
Questo virus è responsabile di polmoniti interstiziali bilaterali, ma anche altri organi e tessuti possono essere colpiti. Nel mio reparto abbiamo descritto e pubblicato uno dei primi casi in Italia di miocardite COVID, un’infiammazione del muscolo cardiaco. Durante le prime 2-3 settimane di gestione ci siamo accorti che nella seconda fase della malattia, caratterizzata da eccessiva risposta infiammatoria, sono frequenti le complicanze trombotiche (embolie polmonari e trombosi arteriose). Alcuni dei trattamenti che stiamo utilizzando per curare questi pazienti possono invece causare complicanze aritmiche ed è quindi necessario un attento monitoraggio pre e post trattamento. Viceversa, bisogna considerare che le comorbidità cardiovascolari preesistenti alla polmonite da COVID quali cardiopatia ischemica, scompenso cardiaco e anche l’ipertensione arteriosa, identificano un gruppo di pazienti più a rischio e sembrano giocare un ruolo prognostico addirittura più importante delle patologie polmonari croniche come la BPCO. A tal proposito, nei prossimi giorni l’European Heart Journal (la più importante rivista in ambito cardiologico) pubblicherà un nostro lavoro nel quale abbiamo descritto le caratteristiche cliniche e la prognosi dei pazienti cardiopatici affetti da Covid-19 confrontandoli con i pazienti affetti da Covid ma non cardiopatici, confermando che i primi hanno una prognosi significativamente peggiore.

Dopo quanto tempo, un paziente può considerarsi guarito?
La degenza di un paziente che sviluppa una polmonite COVID è variabile e dipende dall’entità e dal decorso della polmonite stessa nonché dalle eventuali complicanze.
In generale si considera dimissibile un paziente asintomatico che non presenta febbre per almeno 72 ore e con un’accettabile saturazione d’ossigeno in aria ambiente. Una volta dimesso il paziente deve assicurare un isolamento domiciliare obbligatorio fino a conferma di avvenuta negativizzazione del tampone naso-faringeo.
Anche dopo la dimissione i pazienti vengono seguiti al domicilio grazie ad un servizio di telemedicina ed assistenza territoriale, tanto più intensivo quanto più le condizioni generali e le comorbidità del paziente lo richiedono.

Com’è cambiato il tuo rapporto con i pazienti?
Questa emergenza ha cambiato radicalmente l’approccio al paziente e certe misure adottate in ambiente ospedaliero continueranno ad essere messe in atto anche al termine dell’emergenza. In questo senso credo che si potrà parlare di un’assistenza ospedaliera pre-COVID e post-COVID. Questo in misura minore varrà anche per la vita di tutti i giorni. Penso che non sarà più concepibile che non vengano rispettate delle misure igieniche precauzionali nei luoghi pubblici.

Mi dicevi delle tue preoccupazioni per il Sud…
In questa fase della pandemia è naturale che si inizi a pensare a una ripresa delle varie attività. La riapertura penso che porterà a una certa quota di nuovi casi.
È un rischio calcolato che dobbiamo assumerci, considerando che l’utilizzo delle mascherine e l’adozione delle distanze di sicurezza siano fondamentali per ridurre al minimo il rischio.
Il Sud è stato meno colpito dalla pandemia, ma un’incontrollata riapertura potrebbe portare ad un’ondata di contagi maggiore proprio in quelle zone che sono state meno colpite, perché meno persone si sono immunizzate. Pertanto, a mio avviso, almeno nei primi mesi di riapertura, dovrebbero essere proibiti gli spostamenti di cittadini tra Regioni.

Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
La prima cosa che mi viene in mente è la grande solidarietà e lo spirito di sacrificio che hanno contraddistinto tutti i colleghi che come me si sono ritrovati in prima linea contro il COVID.
È stato ed è tutt’ora straordinario il contributo di tutti e la gestione multidisciplinare dei malati ha portato a grandi risultati.

Qual è la prima cosa che farai quando tutto sarà finito?
Voglio abbracciare uno per uno i miei familiari, perché alla distanza non ci si abitua mai. E poi un panino con le panelle ed una birra, possibilmente in compagnia!


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