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LA PRIMA, e forse unica, tribuna politica di questa campagna elettorale è andata in onda ieri a Cernobbio, a conclusione della tre giorni del Forum Ambrosetti. L’appuntamento annuale che serve a disegnare gli scenari economici e finanziari per l’autunno-inverno (spostarsi più avanti è azzardato vista la volatilità dei tempi) ha assunto questa volta una valenza aggiuntiva.
Dinanzi ai 200 partecipanti che rappresentano il girone d’eccellenza della finanza e dell’imprenditoria nazionale si sono confrontati i leader dei principali partiti che si contenderanno il voto del 25 settembre. Cinque al tavolo, più uno (Conte) in videocollegamento.
Anche per questa ragione è stato un po’ variato il cerimoniale che tradizionalmente affidava agli esponenti del governo (il presidente del Consiglio o il ministro del Tesoro) il compito di chiudere i lavori. Stavolta, invece sono stati i leader di partito a concludere.
Volendo probabilmente rispettare il rito, il capo della Lega, Matteo Salvini si è presentato con un corredo di slide fra lo stupore dei presenti a cominciare dal moderatore (il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana) e Giorgia Meloni, Il leader leghista però, rinuncia subito al suo progetto considerato anche il tempo a disposizione (appena dieci minuti). Così cambia programma e anche toni. Le pulsioni filo-russe sono dimenticate.
Fra lui e Giorgia Meloni diventa un concorso a premi di “Statista per un giorno”. Il capo del Carroccio garantisce che anche con il governo di centro-destra l’Italia resterà “stabilmente nelle alleanze di cui fa parte” come l’Ue e la Nato, che andrà avanti con la via punitiva per il regime aggressore anche se serve uno scudo europeo per i Paesi membri.
Le magliette con il ritratto del capo del Cremlino? Dimenticate. Le affermazioni “Darei indietro due Mattarella per un mezzo Putin”. Mah. Sì. Forse. Boh. E la dichiarazione che le sanzioni sono una spada senza elsa: feriscono chi la impugna. Chissà se l’ha detto davvero. Salvini cerca anche di recuperare le radici nordiste della Lega chiedendo l’istituzione di un ministero dell’Innovazione che dovrebbe avere sede a Milano. Ricorda Umberto Bossi che voleva creare le sedi distaccate di alcuni ministeri ospitandoli nella Villa Reale di Monza. Un imbroglio per fortuna costato poco. I pochi mobili acquistati non erano certo di gran pregio. Per il resto sembra una gara a chi riesce a essere più rassicurante.
Giorgia Meloni, pur essendo stata per diciotto mesi all’opposizione ha parole di riconoscimento per Mario Draghi confermando la linea che ha tenuto in tutto questo tempo: critiche all’azione del governo. Mai direttamente al presidente del consiglio.
«Bello Draghi a capo del governo ma con quale maggioranza? – si è chiesta – Se ricominciamo a mettere insieme i partiti che oggi fanno finta di farsi battaglia avremmo sempre lo stesso problema: non avremo una visione». Ha spiegato che nel centrodestra “ci sono differenze e sfumature”, ma la “visione” è unica. Anche la richiesta di rivedere il Pnrr cessa di essere un ultimatum per trasformarsi in un semplice “perfezionamento”.
Il fuoco, però, esiste. Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna, che rappresentano il governo spiegano che il Pnrr non si tocca se non vogliamo perdere i nuovi finanziamenti dell’Europa. Per fine anno, infatti, è attesa una nuova tranche di 30 miliardi. Se cominciamo a mischiare le carte il portafoglio di Bruxelles potrebbe restare chiuso.
Ecco perché, secondo Enrico Letta il rischio è quello di avere un governo che gioca “nella serie B europea con Ungheria e Polonia come interlocutori principali”. In queste elezioni, ribadisce, “è in gioco il futuro dell’Italia”, mentre “ci sono difficoltà e anche tanti segnali di speranza” che “abbiamo la responsabilità” di tenere vivi.
Chi invece Draghi continua a criticarlo, è il leader del M5s Giuseppe Conte, collegato da Napoli, che propone di “investire sul taglio del cuneo fiscale non solo a favore dei lavoratori” e di abolire l’Irap. Polemizza con Giorgia Meloni che aveva giudicato un fallimento il Reddito di cittadinanza.
Il coordinatore di Fi, Antonio Tajani, giura poi fedeltà al centrodestra, che “non la lasceremo mai”, mentre il leader del terzo polo, Carlo Calenda, forse il più applaudito dagli imprenditori in sala, è certo del contrario: “Si detestano tutti, si sfascerà e se noi prendiamo molti voti cercheremo di tenerci Draghi”.
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