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Operazioni di voto al tempo del coronavirus

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I risultati delle elezioni regionali mostrano come la concentrazione personalizzata dei voti sui Presidenti di Regione abbia portato alla riconferma di questi ultimi senza che vi fosse una vera e propria opposizione. Essendo stati inevitabilmente al centro del dibattito pubblico durante l’emergenza epidemica, gli impropriamente detti “governatori” sono stati in grado di contenere in modo ottimale il diffondersi dei contagi, svolgendo altresì un ruolo mediatico nazionale nel corso della crisi. Soprattutto, la riconferma di figure quali Zaia e De Luca (che hanno raggiunto una percentuale di consensi molto superiore al 50%)  premia dunque soprattutto la capacità dei due leader nel contrastare la difficile situazione socio-sanitaria e traduce il loro prodigarsi in diretto consenso elettorale. La forte mediatizzazione che questi personaggi politici hanno avuto nel corso dell’ultimo anno – la spettacolarizzazione del “metodo Zaia” e la forte visibilità social di De Luca – ha contribuito a rafforzare la loro leadership, consentendo la loro rielezione con numeri impressionanti.

Nonostante l’appoggio dei principali partiti nazionali, il risultato delle regionali ha portato alla affermazione di uomini soli al comando di realtà territoriali in cui il riferimento politico non è più di orientamento partitico, ma ad personam. Lo sfarinamento dei partiti di riferimento preoccupa chi ritiene che la personalizzazione dei presidenti si possa tradurre in un progetto nazionale, ma si tratta di fatto di un timore irreale, trattandosi di un fenomeno che non fuoriesce dai confini regionali – sarebbe quantomeno improbabile credere che nel napoletano si possa appoggiare Zaia. Eppure, è interessante come i “governatori” abbiano creato un forte consenso, di stampo prettamente populista, che pesa in modo tanto ingente rispetto ai partiti di riferimento.

Se la destra, a livello regionale, mantiene la maggioranza in ben 15 regioni, è pur vero che attualmente il principale antagonista del progetto politico di Salvini non si trova a Sinistra, ma è rappresentato da Zaia stesso. La lista personale di quest’ultimo, a fronte dei 347 mila voti ottenuti della Lega in Veneto, ha più che raddoppiato i voti del 2015, arrivando a 915 mila voti. Il caso Veneto, per quanto sia testimonianza della sconfitta pesante della Sinistra, deve porre degli interrogativi seri a Salvini rispetto a Zaia, al quale i veneti riconoscono doti amministrative importanti e un forte consenso personale. Sia De Luca che Emiliano, d’altra parte, sono tutto fuorché espressione della debole leadership di Zingaretti, acclamato vincitore dal PD nonostante persino il suo terzo candidato eletto, Giani, si sia mostrato sufficientemente debole da far raggiungere comunque un 40% al Centrodestra in una delle regioni più a sinistra d’Italia. Lo stesso Vincenzo De Luca, nel commentare il successo elettorale, ha sottolineato come la sua vittoria non sia stata ascrivibile ad un’area politica di Sinistra, essendo stato appoggiato anche da partiti di Destra.

Tutti e quattro i Presidenti eletti (Toti, Emiliano, Zaia, De Luca) sono stati votati a prescindere dallo schieramento politico che li ha sostenuti, in modo tanto netto da non poter ritenere che i risultati di queste elezioni possano rappresentare effettivamente la situazione politica nazionale dei partiti di riferimento. Il successo personale di Zaia (76,8 per cento) e di De Luca (69,5) li avrebbe forse portati ad essere ugualmente eletti anche senza l’apporto dei voti dei partiti di appartenenza.  A questo scenario si aggiunge la situazione del Movimento Cinque Stelle che, tronfio della vittoria del Sì al referendum costituzionale, si riduce tuttavia ad un partito con numeri pressoché irrisori, confermando come una aggravata diffidenza dell’elettorato nei confronti delle istituzioni si possa tradurre in volontà di riformismo senza che questo sia rappresentato necessariamente da un partito. I pentastellati rivendicano una vittoria che ne rappresenta piuttosto la disfatta, palesando la  necessità di rivedere la propria linea d’azione politica. Il referendum è stato forse l’ennesimo tentativo di risolvere in senso antipartitico e populista la crisi politica che è testimoniata dai risultati delle elezioni regionali. Il sistema della rappresentanza nel nostro Paese non funziona più e così il ruolo di mediatori tra volontà popolare e governabilità politica, che i partiti dovrebbero ricoprire, oggi è messo fortemente in discussione.

D’altra parte, nella gestione dell’emergenza da coronavirus, sono stati quegli stessi partiti e quelle stesse istituzioni, contro cui si scontra il dissenso popolare, a mostrarsi inefficienti, lasciando che fossero le regioni a trovare soluzioni efficaci per contrastare la crisi. Quelle stesse regioni in cui oggi il rafforzarsi del potere dei Presidenti mostra come questi siano riusciti a inserirsi nel vuoto lasciato dalla politica partitica, che rischia ad oggi di diventare una voragine.


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