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Durante il lockdown, abbiamo spesso pensato che ne saremmo usciti più forti, coesi, addirittura migliori. Abbiamo scoperto lo smart working e la didattica a distanza, fantasticato su blocchi di plexiglas sulle spiagge e su possibili rivoluzioni inclusive in ottica green. Vittima privilegiata di queste illusioni è stata la generazione dai venti ai trentacinque anni che, schiacciata dalla pressione sociale, dal precariato e dall’ossessione per la produttività a ogni costo, sta pagando il costo più alto. Le prime ricadute economiche della crisi generata dall’emergenza sanitaria si intravedono già nei dati Eurostat sulla disoccupazione Ue. Nel maggio 2020, il tasso di disoccupazione destagionalizzato nell’Eurozona è stato del 7,4%, che equivale a 12 milioni di disoccupati. I giovani under25 senza lavoro nell’Ue sono 2milioni e 815mila, con un incremento di circa 64mila unità. La disoccupazione femminile è pari al 7,2% nell’Ue, ma aumenta sino al 7,75 nella zona Euro.
L’allarme lanciato dalla Confederazione europea dei sindacati è ancor più allarmante: secondo recenti stime, entro la fine dell’anno la crisi spingerà la disoccupazione giovanile sino a 4,8 milioni e i NEET – quanti non lavorano e non studiano – potrebbero passare dagli attuali 4,9 milioni a ben 6,7 milioni.
A questo scenario, bisogna aggiungere il report dell’Oecd “Youth and COVID-19: Response, Recovery and Resilience” basato su sondaggi condotti da 90 associazioni in 48 Paesi. I risultati sono allarmanti: si prevede infatti che la pandemia avrà conseguenze anche sulla salute mentale, sulla ricerca del lavoro, sull’educazione e sulla liquidità dei giovani, sia a breve che a lungo termine. Come sottolineato dallo stesso osservatorio, Millenials e Gen Z partono da una situazione di svantaggio perché sono meno occupate e percepiscono redditi più bassi.
In Italia, ad esempio, i nati dopo il 1986 hanno il reddito pro capite più basso (inferiore a 30mila euro l’anno) e si qualificano come generazione più povera della storia d’Italia: un triste primato dovuto a stipendi inferiori dell’11% rispetto alla media nazionale. Questa situazione non potrà che peggiorare dopo la pandemia: secondo l’ILO Monitor, i giovani hanno subito un triplo shock, che rende difficile poter rientrare nel mercato del lavoro oppure cambiare impiego. Ma non finisce qui: un giovane su sei ha perso l’impiego già durante il lockdown e il 77% dei lavoratori under25 è impiegato nell’economia formale, che sarà maggiormente sacrificata nella fase 3 e nei mesi a venire. Il 60% delle giovani donne e il 53% dei giovani uomini ritengono inoltre che le proprie prospettive di carriera siano a rischio.
I giovani adulti tra i 18 e i 29 anni sono oggi meno tutelati, meno retribuiti e meno soddisfatti della propria occupazione, ma anche più stressati. Già nello scorso aprile, Eurofond sottolineava come a essere maggiormente esposti al rischio depressione post-COVID fossero proprio gli under 35, spaventati dal futuro. Il report già citato dell’Oecd ha infatti rilevato come le preoccupazioni maggiori dei giovani siano personali, lavorative e legate all’aumento del debito pubblico, poiché porterebbe a misure di austerity che colpirebbero soprattutto le nuove generazioni.
Il clima di incertezza e l’impossibilità a sostenere le spese colpiscono anche il settore della formazione: già durante il lockdown, nonostante l’attivazione di programmi di didattica a distanza, la metà degli studenti non è riuscita a proseguire la frequenza delle lezioni. Secondo lo Svimez, nel 2020/2021 circa 10mila studenti (pari al 20%) potrebbero non iscriversi ai nostri atenei: di questi, più del 60% si troverebbero nelle regioni del Mezzogiorno. Un calo simile si era verificato durante la crisi 2008-2009, durante la quale si era registrata una elevata elasticità del passaggio tra scuola e università legato all’indebolimento dei redditi delle famiglie. La ripresa degli immatricolati e del tasso di passaggio aveva registrato un recupero parziale per il Mezzogiorno con segnali di debole ripresa tra il 2013 e il 2019, mentre il Centro-Nord era già rientrato ai valori precrisi. Gli effetti di questo nuovo calo potrebbero essere devastanti per il nostro Paese: molti ragazzi infatti, scoraggiati o impossibilitati a sostenere le spese, soprattutto se fuori sede in città con affitti invariati, non cominceranno oppure interromperanno gli studi, con l’aggravarsi del quadro dell’istruzione superiore. Secondo l’ultima rilevazione Istat, gli italiani sono ultimi in Europa per livello di istruzione: il 62,2% delle persone tra i 25 e i 64 anni in Italia ha almeno il diploma, contro il 78,7% nell’Ue; i laureati italiani sono invece il 19,6% della popolazione, a fronte di una media Ue del 33,2% e sono i meno occupati. Il gap tra i tassi di occupazione italiano ed europeo si riduce infatti solo dopo i 50 anni.
La nostra è una generazione avvezza alle crisi, abituata a subirne gli effetti sia in prima persona che attraverso l’esperienza dei propri cari, ma lo scenario che abbiamo innanzi a noi non ha precedenti. E a poco servono le rassicurazioni sulle sorti dei più giovani e sull’impiego del Recovery fund: non è ancora chiaro come saranno utilizzati questi fondi e, soprattutto, se la società e la politica saranno capaci del cambio di rotta necessario. Secondo un sondaggio condotto da IZI in collaborazione con Comin&Partners su un campione di circa 1000 giovani residenti in Italia con età compresa tra i 18 e i 40 anni, un giovane italiano su due è pessimista sul proprio futuro, più di un quarto dei giovani prevede di svolgere lavori meno retribuiti e uno su quattro teme un lungo periodo di disoccupazione.
Il lockdown e la pandemia hanno scoperchiato il vaso di Pandora delle fragilità del nostro sistema e, a oggi, è impossibile prevedere se e quando la presa di coscienza collettiva sarà seguita da azioni concrete in termini di inclusione, parità, lotta ai cambiamenti climatici, sostenibilità e innovazione etica. Quel che è certo è che le giovani generazioni meritano – e chiederanno – un futuro migliore.
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