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L’11 gennaio 1999 ci lasciò Fabrizio De André, venticinque anni senza Faber, l’autore che più di tutti ha raccontato l’universale attraverso la Storia

Venticinque anni dalla scomparsa di Fabrizio De André. Venticinque anni di un’utopia seppellita sotto le sabbie del tempo, inesorabilmente normalizzata e resa innocua in tempi che meriterebbero ben altri fuochi da consumare.
La prima maledizione di Faber: non tanto aver avuto pochi eredi (non imitatori enciclopedici, eredi), quanto aver subìto una trasformazione ideologica profonda. Il cantore del duro e crudo realismo del mondo, della sua contemporaneità attraverso il linguaggio della Storia, trasformato in un oggetto utopico, in parte Profeta e in parte Poeta, una voce che è stata e non può ripetersi.

Difficile confrontarsi con la sua monumentale discografia, il suo lento incedere dall’aspetto puramente cantautorale a quello autoriale degli ultimi anni. Ma la questione più urgente è il collocare Fabrizio De André nel nostro (nuovo) tempo. C’è uno scherzo che aleggia tra gli appassionati, una sorta di meccanismo di difesa. Il fatto che l’anima di Faber sia stata ormai ampiamente superata. A conti fatti resterebbe il suo aspetto poetico, il linguaggio e l’assimilazione delle fonti culturali utilizzate per la creazione dei suoi testi.
Una sorta di metodo/visione che nulla ha a che fare con quanto si consuma in questi anni di musica liquida e mercificazione dei saperi e delle libertà.

Fabrizio de André reso innocuo dai suoi ammiratori, cantare “La canzone di Marinella” per imitare una certa audacia letteraria, mentre attorno a noi la morale inquisitoria che reprime la libertà del sesso è più forte che mai. Il muro che separa il tempo di “Don Raffaè” e del suo servo-secondino di fronte ad una umanità ancora oggi piegata al potere delle mafie, quella “Domenica delle Salme” che aveva la pretesa, utilizzando forse tutto l’arsenale poetico di un intellettuale, di raccontarci le paure, la crisi, la necessità di trovar pace alla caduta della Cortina di Ferro e che oggi ci ricorda l’infame povertà della gioia, consegnata nelle mani di chi ha il potere nel nome di una spietata sicurezza.
Sono immagini che ritornano e spariscono, perché ancora oggi saldamente ancorate ad una ipotesi che non può reggere: il Fabrizio De André figlio del suo tempo, che oggi non avrebbe spazio se non per scandalizzare un pubblico sempre più vasto.

Faber è sempre stato, nonostante lo sterminato successo avuto già in vita, un autore marginale. Lo è stato per le scelte politiche, la sua straordinaria capacità letteraria, la sua formazione musicale. Una sorta di mosca nera che ha attraversato quasi tutte le fasi dell’industrializzazione della musica senza cercare compromessi commerciali. È ormai un aneddoto noto il suo metodo di scrittura. Una raccolta certosina di testi, libri, giornali. Un processo di assimilazione continua di ispirazioni, suggestioni e politiche, filtrate e centellinate verso dopo verso. Poi tagliate ancora, raffinate fino all’esasperazione, trasformate in parole che dell’origine conservano l’intuizione profonda. La natura rivoluzionaria delle cose.

Cosa vuol dire oggi parlare di anarchia? Lasciar scorrere le lacrime di fronte ai massacri d’innocenti a Gaza, trovare una scintilla d’amore e vicinanza guardando negli occhi ciò che il capitale “mastica e sputa” e riconsegna anestetizzato, ben lucidato e pronto per essere esposto in un museo. Cosa vuol dire parlare di amore perduto e ritrovato o riscoperto. Risvegliato dopo anni di grigiore atarassico.

Forse per questo l’ultimo atto di Faber è stato consegnarci “Smisurata preghiera”. Un monito al futuro e un segnale per chi vuol leggere. Non è al centro delle cose che si muovono i pensieri. Eppure, eccoci qui “chini e distanti sugli elementi del disastro delle cose che accadono al di sopra delle parole”, ad osservare ancora una volta il male del mondo senza prenderne posizione. Senza trovare una via di fuga, un’alternativa alle gabbie globali che ci legano alle nostre sedie.

La Giustizia degli “arbitri in terra del bene e del male” diventata gioia dei manettari, la passione punitiva di fronte a chi non si oppone alla crudeltà, ma ne diventa meccanismo integrante. Un po’ come il falegname nella bottega. “Mio martello non colpisce, pialla mia non taglia, Per foggiare gambe nuove a chi le offrì in battaglia, Ma tre croci, due per chi disertò per rubare, La più grande per chi guerra insegnò a disertare”.

Recuperare De André, dunque, significa in primo luogo tornare ad inseguire dei sogni che si fanno rivoluzione. Si sciolgono nelle strade, infiammano le notti. Niente più confini e soprusi, niente ricchezza costruita sul sangue degli oppressi, barricate contro lo sfruttamento, fiamme contro la Giustizia. Conquistare la libertà senza il timore di perdere sé stessi. Sarà “almeno il caso che la fortuna li aiuti”. O ci aiuti venticinque anni dopo, a non soccombere ancora.


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