Il rapper Francesco “Kento” Carlo
5 minuti per la letturaFRANCESCO “Kento” Carlo è un rapper, attivista e scrittore di Reggio Calabria, nato nel 1976. In parallelo alla sua carriera musicale, insegna dal 2009 in vari carceri minorili, scuole e comunità di recupero, tenendo laboratori di scrittura e musica per i ragazzi a rischio. Per la sua attività sociale attraverso la musica ha vinto il premio Cultura Contro le Mafie nel 2014, mentre nel 2017 è stato premiato da Casa Memoria Impastato e ANPI. È membro della LIPS-Lega Italiana Poetry Slam. È autore degli album “Sacco o Vanzetti” (2009), “Radici” (2014) e “Da Sud” (2016). Il suo primo libro, “Resistenza rap”, è stato tradotto in inglese e pubblicato negli Stati Uniti nel 2018.
Edizioni Il Castoro ha dato alle stampe la sua ultima opera, “Te lo dico in Rap”, il primo libro in Italia sul Rap e sulla cultura Hip-Hop per bambini e ragazzi, con tecniche, consigli e segreti del mestiere raccontati da uno dei più stimati rapper italiani, illustrato da AlbHey Longo. In questa intervista Kento ci racconta come è nata quest’opera così particolare.
Perché un libro sul rap?
«Perché un libro per ragazzi sul rap in Italia non c’era. Negli Stati Uniti esistono molti titoli dedicati al rap e all’hip hop, ma in Italia, nonostante il Rap sia un fenomeno maturo, con una propria semantica espressiva, un testo del genere mancava. Io ho cercato di realizzare un volume molto puntuale, lavorando fianco a fianco con il mio editore (Il Castoro ndr). Scrivere un libro per me è stata sicuramente un’avventura insolita, ma c’era grande voglia di colmare questa lacuna. I bambini e i ragazzi sono immersi fin da piccoli nella cultura Hip Hop, con il rap e i graffiti ad esempio, ma nessun sa come è nata e quando. Abbiamo raccontato nel libro anche la matrice storica culturale e sociale del fenomeno».
Ma il rap è una scienza o un istinto? Se ne possono scrivere le regole?
«Entrambe le cose. Ci deve essere un istinto ma ci devono essere anche delle regole. Tutta la musica ha delle regole. Dal loop alla scrittura musicale. Poi, ovviamente, le regole si possono superare, abbattere o ignorare, ma prima di tutto si devono conoscere. Ci deve essere dunque un bilanciamento dall’approccio istintivo e di quello regolato. Due gambe che si muovono all’unisono per poter andare lontano».
Che cosa significa essere un rapper in Calabria?
«Io ho incominciato molto presto, a Reggio Calabria, a prendere sul serio il mondo del rap. Ero ancora alle scuole medie. Ho vissuto la così detta Golden Age del rap, quel periodo in cui i grandi maestri come Tupac e Notorius B.I.G. erano ancora vivi. Cerco ancora oggi di mantenere vivo il mio stupore e la mia voglia di cose nuove. La Calabria ha un forte tradizione nell’arte della musica e della scrittura, così come ha una grande tradizione nell’Hip Hop, con la scuola cosentina e DJ Lugi, che hanno disegnato una scena contestuale molto forte e bella. Il problema in Calabria è la mancanza di eventi e la presenza di poche opportunità per fare rap, sia sotto il profilo economico che dell’espressione. Fare rap a Milano, farsi sentire in giro, confrontarsi, magari avere anche la possibilità di fare serate e guadagnare qualcosa, non è come fare rap a Reggio Calabria. Però le difficoltà di un ragazzo di Reggio Calabria possono essere fonte di maggiore ispirazione. Io vivo a Roma, se dovessi vivere oggi in Calabria avrei difficoltà. Ma se non fossi nato in Calabria vivrei comunque delle difficoltà perché l’ispirazione che mi ha dato la mia terra è stata unica».
Hai portato la cultura Hip Hop e i suoi insegnamenti nelle scuole dei carceri e nelle comunità di recupero. Che tipo di esperienza è?
«È stata un’esperienza straordinaria, capace di insegnarti le piccole cose della vita. Per esempio che i ragazzi sono ragazzi. Sempre. Tra i ragazzi di un liceo e quello di un carcere ci sono meno differenze di quello che pensi. È stato un percorso che mi ha fatto riscoprire l’esigenza di essere io in primis a tornare ragazzo, scoprendo tutto con occhi nuovi. Vengo da un’esperienza di 10 anni di laboratori di scrittura e musicali. Ho sbagliato lungo questo percorso, e imparato dagli errori. Ho voluto riassumere in questo libro il mio percorso ed espanderlo».
Nel libro parli spesso di “Cerchio”. Di cosa si tratta?
«Il cerchio è la forma di espressione primordiale dell’hip hop. Nessuno è più in alto dall’altro, non c’è l’artista che sta in alto e quello che sta in basso. Siamo tutti alla pari. Ci si guadagna il rispetto e l’attenzione solo attraverso la proprio abilità. Io faccio sembra l’esempio di Re Artù e della tavola rotonda, dove non c’era un capotavola ma erano tutti uguali. Il rap quindi come strumento per raccontare un messaggio positivo. Però il rap spesso è dipinto come contenitore di messaggi non proprio in linea con un libro per bambini. C’è una sezione intera del libro in cui parla di quel contesto proprio del rap che fa riferimento all’edonismo, alla superficialità, sessualità. Parlo di queste cose in un libro per bambini. Non prendo scorciatoie, perché i bambini sono piccoli ma non sono stupidi e capiscono tutto, se gli viene spiegato. Io cerco di trasmettergli che non tutto quello che dicono i rapper è intelligente. Questa consapevolezza li deve spingere verso un ascolto consapevole, critico. Il rap è mainstream, cioè racconta la nostra società nella sua interezza. Se noi spieghiamo ai ragazzi che l’oggi è loro, lo sarà maggiormente il domani».
Hai vinto il premio Cultura Contro le Mafie nel 2014, mentre nel 2017 sei stato premiato da Casa Memoria Impastato e ANPI. Cosa può il rap contro la mafia?
«Questi premi mi hanno fatto molto piacere, ma il premio che vorrei davvero è che chi legge questo libro sappia capisca che il rap serve ad opporti contro ciò che non va, come la mafia. I ragazzi spesso lo fanno spontaneamente, con una grandissima lucidità, spesso anche in difesa dell’ambiente. In fatto di temi sociali la sanno già lunga».
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