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Lavoro minorile e bambini a rischio, il decano dei sociologi, Franco Ferrarotti, chiama in causa famiglie, sindacati e la scuola, meritocratica in modo sbagliato

Il lavoro minorile è un fenomeno globale che non risparmia nemmeno l’Italia, diffuso ma ancora in larga parte sommerso e invisibile. Nel Paese, secondo le stime, 336mila minorenni tra i 7 e i 15 anni hanno avuto esperienze di lavoro, continuative, saltuarie o occasionali: il 6,8% della popolazione di quell’età, quasi un minore su 15, prima dell’età legale consentita (16 anni).

Nel periodo in cui lavorano, più della metà degli intervistati lo fa tutti i giorni o qualche volta a settimana e circa 1 su 2 lavora più di 4 ore al giorno. I settori interessati sono ristorazione (25,9%) e vendita al dettaglio nei negozi e attività commerciali (16,2%), agricoltura (9,1%), edilizia (7,8%), attività di cura con continuità di fratelli, sorelle o parenti (7,3%). Ma emergono anche nuove forme di lavoro online (5,7%), come la realizzazione di contenuti per social o videogiochi.

Dati agghiaccianti raccolti da “Non è un gioco”, l’indagine sul lavoro minorile in Italia, condotta da Save the Children, l’Organizzazione internazionale che da oltre un secolo è impegnata per salvare i bambini e le bambine a rischio e garantire loro un futuro.

Un fenomeno non nuovo che, se mai, si è aggravato. “Anche nell’indagine di 10 anni fa, condotta dall’Associazione Bruno Trentin (oggi Fondazione Di Vittorio) con Save the Children – dice Anna Teselli, responsabile delle Politiche di coesione e giovanili della Cgil – era stata rilevata una stima analoga. D’altra parte è dagli anni ’90 che la Cgil ha cominciato ad occuparsi del fenomeno in modo sistematico e ha rilevato una quota di giovanissimi impegnati in attività di lavoro minorile sempre prossima ai 350mila-400mila soggetti”.

Il problema secondo la sindacalista è che le istituzioni hanno sottovalutato la gravità del fenomeno del lavoro minorile che ora sta assumendo dimensioni preoccupanti. “Il nodo politico – spiega l’esperta – riguarda le istituzioni pubbliche che non hanno voluto dare visibilità a questo mondo sommerso, né dal punto di vista del riconoscimento della sua consistenza numerica, prova ne sia che l’ultima indagine Istat risale a oltre 20 anni fa, né sul versante dell’attuazione di politiche pubbliche mirate”.

“La elevata percentuale di ragazzi di età inferiore ai 15 anni che ha avuto esperienze lavorative, il 20% secondo l’indagine, rivela un fenomeno diffuso. Dai risultati della survey inoltre nella metà dei casi circa si tratta di attività lavorative svolte con una certa frequenza” aggiunge Fedele De Novellis, economista, direttore scientifico di Ref Ricerche di Milano. Che si sofferma in particolare su due aspetti. “Innanzitutto, si tratta di giovani provenienti con maggiore probabilità da background familiari disagiati, nei quali quindi i redditi degli adulti devono essere integrati da altre entrate. In secondo luogo, il futuro di questi giovani è compromesso, dati gli esiti scolastici mediamente insoddisfacenti, che ne fanno dei lavoratori “deboli” che con maggiore frequenza tendono ad abbandonare gli studi. Ne risulta cioè anche compromesso il conseguimento di livelli d’istruzione minimi, e quindi la futura accumulazione di capitale umano”.

Per questi giovanissimi risucchiati dal vortice del lavoro sommerso, senza garanzie, né sicurezza, spesso si spalanca il baratro della delinquenza. Non è un caso che quasi il 40% dei minori e giovani adulti presi in carico dai Servizi della Giustizia Minorile – più di uno su 3 – ha affermato di aver svolto attività lavorative prima dell’età legale consentita. Inoltre, più di un minore su 10 ha iniziato a lavorare all’età di 11 anni o prima e più del 60% ha svolto attività lavorative dannose per lo sviluppo e il benessere psicofisico.

Riguardo i minori coinvolti nella criminalità organizzata, è soprattutto al Sud che questa li utilizza per lo spaccio di droga o per furti. E non è un caso, che sempre tra i minori incontrati nel Mezzogiorno, ad accomunare molti di loro è il desiderio di allontanarsi dai propri contesti di vita, giudicati in modo fortemente negativo sotto il profilo sociale, economico e culturale.

Se a valle, come dicevamo, le istituzioni non sono state proattive, le responsabilità vanno cercate a monte. Partendo anzitutto dalle famiglie che consentono che i propri figli vengano sfruttati. “I genitori inviano i loro figli non ancora maggiorenni a lavorare conoscendone le condizioni precarie: sfruttamento e insalubrità. Nel Mezzogiorno questa è una piaga tremenda, ma pochi ne parlano” denuncia Franco Ferrarotti, 97 anni, il decano dei sociologi, che al lavoro minorile ha dedicato il libro “La strage degli innocenti. Note sul genocidio di una generazione” edito da Armando Editore nel 2011 che fece scalpore.

“Responsabilità hanno soprattutto i datori di lavoro e i sindacati perché si interessano solo dei loro iscritti, ma non affrontano anche queste forme di lavoro minorile” aggiunge lo studioso.

L’ingresso precoce nel mondo del lavoro incide negativamente sulla crescita e sulla continuità educativa di questi minorenni, alimentando il fenomeno della dispersione scolastica. “La scuola finalmente dovrebbe darsi una mossa per capire che non è più distaccata dalla società” chiosa il sociologo: “scuola, lavoro e formazione devono andare di pari passo, mentre oggi la scuola è meritocratica in senso sbagliato” precisa Ferrarotti. Un esempio? “Ci sono state le cosiddette classi differenziali, riservate a quei giovani che nelle borgate o nelle periferie dei grandi centri urbani, non riuscivano a tenere il passo degli altri, però dovevano ogni sei mesi fare delle prove per vedere se i ragazzi che le frequentavano potevano entrare nelle classi normali. E allora cos’è accaduto? E’ accaduto che chi era all’inizio marchiato come “differenziale” restava marchiato a vita. Non solo, ma dal differenziale si passava all’evasione. Insomma scomparivano e la scuola se ne lavava le mani …”.

Questi ragazzi, dunque, rischiano di rimanere ingabbiati nel circolo vizioso della povertà educativa, bloccando di fatto le aspirazioni per il futuro, anche sul piano della formazione e dello sviluppo professionale, con pesanti ricadute anche sull’età adulta. E poi ci sono anche gli aspetti legati al ricorso alle nuove tecnologie. “Pongo l’enfasi in particolare sugli effetti della tecnologia – fa notare ancora Ferrarotti – che è un valore, ma è un valore strumentale, e nessuno sta attento alle ripercussioni che ne conseguono dalla loro utilizzazione spinta. La tecnologia cambia i vecchi mestieri, le vecchie professioni e obbliga al lavoro diciamo a tempo determinato. Ma non si può far pagare la tecnologia ai più deboli della società”.

“In Italia non si tratta di cercare minori sfruttati nelle miniere, nella produzione di tappeti – avverte la Teselli – come ci ha insegnato la storia di Iqbal Masih in Pakistan, bambino operaio e attivista, simbolo della lotta contro il lavoro minorile a livello internazionale. Si tratta di cercare giovanissimi commessi, camerieri, baristi, ‘aiutanti artigiani’, che nella maggior parte dei casi lavorano per la famiglia, aiutando i genitori nelle loro attività professionali nel mondo delle piccole e piccolissime imprese a gestione familiare”.

La ricerca di Save The Children si è basata su un’indagine quantitativa condotta in collaborazione con la Fondazione di Vittorio su un campione probabilistico rappresentativo della popolazione di studenti iscritti al biennio della scuola secondaria di II grado.

“Continuare a ignorare i dati sul lavoro minorile e i singoli percorsi di vita che dietro a questi numeri si celano, denuncia ancora una volta la sostanziale indifferenza in cui le nostre politiche pubbliche relegano i giovani” dice contrariata la Teselli.

«Non basta, come si fa nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, dichiarare i giovani un target trasversale. Occorre modificare la narrativa sui giovani nel dibattito pubblico, per dar loro un’efficace centralità nelle politiche e negli interventi dei prossimi anni: non sono i giovani il problema del nostro Paese, quanto il fatto che le condizioni di contesto li releghino troppo spesso in condizioni di fragilità sociale, vulnerabilità e precarietà lavorativa, scarsa rappresentatività e partecipazione alla vita del Paese. Serve – conclude la sindacalista – utilizzare appieno le ingenti risorse che anche l’Europa sta mettendo a disposizione per sostenere le nuove generazioni nel loro ruolo di leva per la crescita sostenibile e inclusiva».


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Francesco Ridolfi

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