Giorgia Meloni durante una manifestazione di Fratelli d'Italia
7 minuti per la letturaQUESTI sono i giorni delle trattative serrate e dello studio dei dossier più importanti, a partire dal caro energia. Il tempo è poco e l’esigenza di agire al meglio è altissima: gli occhi del mondo sono tutti puntati su di lei, la “premier in pectore” Giorgia Meloni e sulla sua capacità di formare un governo di alto profilo all’altezza del momento particolarmente delicato.
«La leader di Fratelli d’Italia sa che questo è un governo a suo modo storico, per varie ragioni» ci spiega Luigi Di Gregorio, professore di comunicazione politica alla Luiss e all’Università della Tuscia. «E sa altresì di avere di fronte l’occasione della vita, per lei e per un’intera comunità che ancora pochi anni fa non avrebbe neanche immaginato un esito del genere».
Che governo si aspetta dunque?
«Mi aspetto un governo di alto profilo, con una grande attenzione anche alle nomine del cosiddetto ‘sottogoverno’ cioè i dirigenti apicali, i ruoli di diretta collaborazione, i vertici delle aziende partecipate, e così via. Uno dei fari puntati su Fratelli d’Italia è proprio mirato a valutare la qualità di queste scelte, che chiamano in causa quel (presunto) deficit di classe dirigente tante volte rinfacciato a Giorgia Meloni in campagna elettorale. È lecito quindi attendersi il massimo impegno per dimostrare il contrario. Anche perché le sfide che l’esecutivo dovrà affrontare sono enormi e serve un’attenzione massima a ogni singola scelta, dalle persone, alle politiche, alla strategia, alla comunicazione».
A una settimana dal voto Meloni si è vista poco e sentita ancor meno. Il messaggio è chiaro: sobrietà e concretezza. Che ne pensa? Quali gli errori da evitare in questa fase?
«A mio avviso Meloni ha fatto già la campagna elettorale da premier in pectore, con toni rassicuranti, equilibrio e concretezza. Ed evitando una sovraesposizione inutile, dato il vantaggio che aveva nei sondaggi. Ritengo che stia gestendo molto bene anche questa fase post-elettorale, sulla stessa falsariga. È giusto tenere toni bassi, invitare alla sobrietà e appellarsi a tutte le forze del paese per uscire insieme dai mesi molto critici che ci attendono. Così come è giusto lavorare a una transizione proficua, facendo sponda con Mario Draghi per accorciare i tempi del ‘rodaggio’, per mandare messaggi univoci in Europa e agli alleati internazionali e per essere pronti a lavorare il prima possibile, viste le urgenze e le criticità da affrontare».
Indubbiamente la prima prova, anche in vista della tenuta di un possibile Esecutivo, passa dal rapporto con gli alleati di coalizione. Crede che FI e Lega e i rispettivi leader sapranno dare vita ad una “comunità d’intenti” con Giorgia Meloni?
«Credo di sì. È normale che nella fase di trattative per la formazione del governo ci siano posizioni in partenza anche lontane. Non sarebbero trattative, altrimenti. Ma penso che la squadra si chiuderà in tempi rapidi e senza particolari ‘scossoni’. Quanto alla tenuta, i governi di coalizione sono sempre potenzialmente precari – in Italia ne sappiamo qualcosa – però sulla carta questa maggioranza ha i numeri per governare a lungo. E non vedo vantaggi, tra gli alleati, nel tirare la corda eccessivamente, intralciando i piani del governo. Rischierebbe di essere una mossa azzardata e politicamente poco utile, prima di tutto per loro. Meloni è stata 10 anni all’opposizione per tenere fede alla promessa fatta agli elettori di centrodestra. Ora che il centrodestra ha la maggioranza, non conviene a nessuno rompere quel patto. Le difficoltà per questo governo sono prima di tutto fuori dall’Italia. È lì che si giocano le partite decisive. E in quelle sedi occorrono un esecutivo autorevole e una maggioranza compatta».
Il mainstream mediatico e certa sinistra non hanno perso occasione, sia in campagna elettorale che dopo il voto, di demonizzare l’avversario col solito armamentario che conosciamo. Da esperto di politica e di linguaggio della stessa come giudica questo atteggiamento?
«Non è certo una novità. Non a caso per quasi 20 anni siamo andati avanti col berlusconismo e l’anti-berlusconismo. Credo che questa tendenza abbia due matrici, una italiana e una più generalizzata, occidentale: 1) La destra è abituata ad avere leadership forti e indiscusse – prima Berlusconi, Fini, Bossi; oggi Berlusconi, Meloni, Salvini – mentre a sinistra faticano ad accettare la ‘leaderizzazione’ dei partiti. L’unico leader che è stato in grado di portare un chiaro valore aggiunto in termini di consenso è stato Matteo Renzi. E abbiamo visto come è stato trattato: una specie di corpo estraneo da espellere e ripudiare. Questa differenza fa sì che sia più facile che da sinistra partano attacchi, anche personali, ai leader di destra; 2) tutti i partiti socialdemocratici occidentali vivono una fase ormai lunga di crisi identitaria, hanno perso consenso e incrinato il rapporto con quello che era il loro ‘popolo’, si sono rintanati sulle tematiche dei diritti civili, del multiculturalismo e dell’ambientalismo, tipici valori progressisti, ma elettoralmente perdenti (non solo in Italia). Siccome faticano a trovare un ‘collante’ programmatico e una narrazione vincente, spesso compensano provando a trovare unità e a mobilitare i propri elettori utilizzando l’arma della demonizzazione dell’avversario. Personalmente la trovo una tattica poco utile (perché così come si mobilitano i propri elettori, si mobilitano anche quelli altrui) e dannosa perché incrementa la polarizzazione e rischia di trasformare l’avversario in nemico. Il che in una democrazia non fa mai bene. Peraltro, quando si arriva agli attacchi personali, che toccano cioè il privato e l’intimità di una persona, l’effetto boomerang è dietro l’angolo. L’ultimo scivolone di Repubblica sulla vicenda del padre di Meloni è un caso eloquente: quell’articolo ha portato discredito o, al contrario, ha incrementato la simpatia verso la leader di Fratelli d’Italia?».
Passiamo a un’analisi degli sconfitti. Letta come è noto non si ricandiderà alla guida del Pd, che fase si apre per la sinistra ora?
«Una fase ri-costituente direi. Nel Pd devono approfittare di questo periodo di opposizione – per loro quasi inedito, visto che hanno governato per 10 degli ultimi 11 anni – per ridefinire l’identità del partito. A cominciare dalla domanda delle domande, quella che nel marketing si chiama la ‘reason why’, cioè: ‘perché gli italiani dovrebbero votarci?’, ‘cosa ci distingue dagli altri partiti e cosa ci rende credibili?’. Se non rispondono concretamente a queste domande, uscendo dalla piattaforma elitaria e dalle ZTL e provando a riconquistare pezzi di elettorato abbandonati da molto tempo, continueranno ad arrancare. Insomma, per dirla con una formula sintetica, se non aggiungono i diritti sociali ai diritti civili non ne escono. Le primarie sono importanti, ma – usando un gioco di parole – oggi sono secondarie. Il prossimo segretario dovrà incarnare e dare corpo a una piattaforma del tutto nuova, altrimenti sarà l’ennesimo leader da sacrificare».
Giuseppe Conte, dopo aver salvato il M5s dall’estinzione con un (relativo) buon risultato alle elezioni, potrebbe apprestarsi a varare una fase due della sua leadership e del Movimento stesso?
«Il Movimento 5 Stelle è già in una fase due della sua storia. È un partito diverso da quello delle origini perché ha un elettorato che si autocolloca quasi completamente a sinistra e ha un forte radicamento nel sud Italia. Sarà interessante osservare la sua evoluzione futura, anche perché andrà interpretata in parallelo alle scelte del Pd. Già a giugno si ipotizzava un Conte versione Mélenchon, per cui era chiaro che lo spazio politico nel mirino dei 5 Stelle fosse quello “a sinistra del Pd”. Ciò che non era chiaro era la riuscita di questa operazione. Se il Pd non avesse chiuso la porta da subito a Conte, probabilmente avremmo assistito a una crisi dei 5 Stelle e a un recupero di consensi dei democratici (questo indicavano i trend dei sondaggi fino allo scioglimento delle camere). Avendo scelto di tenerli fuori dalla coalizione, Letta ha finito per rianimarli, ha dato loro la possibilità di ridefinire la loro identità, peraltro indebolendo sensibilmente la competitività della coalizione di centrosinistra. Conte ha fatto un’ottima campagna e un sensibile recupero, ma l’artefice di questa rimonta, paradossalmente è stato proprio Enrico Letta perché ha permesso loro di giocare la partita che volevano: soli contro tutti, riprendendo la narrazione del partito ‘vittima del sistema’, con il precedente del reddito di cittadinanza da rivendicare in una campagna elettorale tutta incentrata sui temi economici. Con queste premesse, era facile immaginare una loro crescita. E ora, per il Pd, il M5S costituisce un problema in più. Perché per 4 milioni e mezzo di elettori, quasi tutti di sinistra, Conte è più affidabile e credibile. Riprendersi quegli elettori non sarà affatto facile».
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