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Alessandro Campi

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Nel suo ultimo saggio, “Trasformazioni della politica” il professor Alessandro Campi, docente di Scienza politica all’Università di Perugia, analizza le cause che hanno reso le leadership delle democrazie potenzialmente sempre più fragili, sottolineando come i capi dei partiti siano ossessionati dai sondaggi e dal consenso sui social, e tendano a presentarsi trasversali e inclusivi, a cercare voti a destra e a sinistra, a parlare a tutti in modo indistinto in assenza di una fisionomia culturale ben definita. O quantomeno ondivaga. Emblematico e di grande attualità, visto quello che è successo negli ultimi giorni, è il caso del Movimento 5 stelle: promettendo l’insurrezione contro il sistema e la rottamazione della casta, ha finito per governare con tutti, nessuno escluso. Arrivati inevitabilmente all’implosione.

Prof. Campi, la scissione che si è consumata nel M5s inevitabilmente inciderà anche sugli equilibri politici generali? Si pensi al progetto del campo largo invocato da Letta ma anche all’ambiguità di Conte sul sostegno incondizionato al Governo Draghi…
«Le leadership odierne, oltre che politicamente fragili e destinate spesso ad esaurirsi in pochi anni, sono anche parecchio confuse e confusionarie. Difficile individuare una linea stabile e coerente. Si vige alla giornata. Mancando un’ideologia di riferimento, si punta a galleggiare secondo le convenienze. E in più si cambia continuamente idea. Conte, che era considerato un moderato, adesso indossa i panni dell’oltranzista, accecato forse anche dal suo risentimento personale nei confronti di Draghi. Di Maio, che ha incarnato tutte le battaglie più demagogiche del M5S (dal no ai rigassificatori al sostegno ai gilet gialli, passato per il reddito di cittadinanza), adesso si presenta come un centrista moderato di incrollabile fede atlantista. Il problema è sino a quando gli elettori sopporteranno questo continui trasformismi. L’aumento continuo dell’astensionismo mi sembra già una risposta. Quanto al ‘campo largo’ lettiano, al momento non è una proposta politica coerente, ma solo un invito a mettersi tutti insieme, dalla sinistra radicale ai centristi ex berlusconiani, per fare massa contro il centrodestra. È un invito all’aggregazione per ragioni puramente elettorali, privo ancora di respiro strategico, e sempre ammesso una simile ammucchiata si possa realizzare praticamente».

Il grande centro: utopia o possibilità concreta?
«Un tormentone, soprattutto, che va avanti da anni e molto sostenuto dai circoli giornalistici, meno dagli elettori come ha imparato a sue spese Mario Monti. Mi sembra che l’unico punto aggregante di questa galassia sia il nome di Mario Draghi: che non si farà un suo partito, ma ne ha molti, tutti piccolissimi, che lo sostengono. Per la salvezza dell’Italia, ma soprattutto per la loro salvezza. Col piccolo particolare che il prossimo anno si vota e sarebbe bene che l’indicazione su chi dovrà andare a Palazzo Chigi venisse, anche solo indirettamente, dagli elettori. L’idea che ci debba andare Draghi a prescindere dal vincitore alle urne la trovo piuttosto bizzarra. Anzi, per niente democratica, a meno di non voler rendere perpetuo il commissariamento della politica italiana. Dopo chi che, non è vero che le elezioni si vincono al centro, come si continua a ripetere. Gli ultimi appuntamenti elettorali, tipo la Francia, ci dicono il contrario: vincono le forze politiche, non estremiste, ma radicali, che abbiano cioè una proposta politica forte. Il brodino centrista, il moderatismo di quelli che non prendono mai posizione, in questa fase storica difficilmente cattura consensi».

Sugli obiettivi – sostanzialmente un generico anti populismo e anti sovranismo – sembrano tutti d’accordo ma c ‘è chi come Calenda, si è già tirato fuori e anche la convivenza in un unico contenitore fra Renzi e Di Maio non sembra di facile attuazione. Che ne pensa?
«Calenda, che ha obiettivamente una marcia in più rispetto agli altri capetti che affollano il centro (anche Renzi mi sembra ormai appannato), ha compreso il rischio di una corsa al centro con troppi partecipanti e ha fatto capire che preferirebbe correre da solo. Con una proposta chiara e un leader ben individuabile forse c’è la possibilità di convincere gli elettori. Creando un grande cartello, senza un’idea forza e con tutti che vogliono comandare, si rischia invece di vedersi bocciati nelle urne. Meglio soli, che male accompagnati».

Se Atene piange, Sparta non ride. Anche nel centrodestra non mancano certo le tensioni, Giorgia Meloni si dice pronta a governare il Paese e il netto sorpasso sulla Lega, ormai non solo nei sondaggi ma anche nella recente tornata elettorale per le amministrative, spinge la leader a definire FdI la forza traino della coalizione. Tutto così semplice? Salvini accetterà di buon grado?
«Nulla è semplice, ma in passato il centrodestra, a dispetto delle divisioni politiche e dei contrasti personali, si è sempre riunificato ad un passo dal voto. E’ la sua forza. Se vi divide le sue chances di vittoria nel 2023, che sono al momento molto grandi, si ridurrebbero drasticamente. Certo non aiutano certi eccessi di protagonismo. Ma per Salvini l’alternativa alla leadership della Meloni decisa eventualmente dagli elettori qual è? Sfasciare la coalizione? Ci sarebbe l’idea della federazione con Forza Italia, ma i primi a non volerla solo proprio gli uomini di Berlusconi, e forse nemmeno quest’ultimo. Meglio dunque tenersi la coalizione che c’è provando a rilanciarla: divisi come partiti, ma uniti progettualmente. Come si è sempre fatto nel passato. Ricordandosi inoltre che gli elettori di centrodestra sono sempre stati più uniti dei loro capi politici».

A proposito del leader della Lega, non è un mistero che in questo momento sia in difficoltà anche all’interno del suo stesso partito. Crede che ci possa essere nel breve periodo una resa dei conti come è avvenuto nel M5s?
«La leadership di Salvini è diversa da quella, affermatasi con difficoltà, calata dall’alto e oggetto persino di contestazioni legali, di Conte. Ciò detto, il malumore dei vertici leghisti è serio e palpabile. Si imputano a Salvini troppi cambi di rotta e un eccesso di movimentismo. Non puoi modificare le tue idee ogni giorno. La Lega è un partito con una lunga esperienza di governo, nazionale e periferico. Certi eccessi di improvvisazione, così come certe ambiguità in politica internazionale, non piacciono soprattutto agli elettori del Nord, imprenditori in primis, che in questa fase storica turbolenta vogliono stabilità e risposte concrete ai problemi, non tirate propagandistiche. Salvini al momento non mi sembra sia in discussione, ma certamente gli si chiederà di cambiare atteggiamento e direzione di marcia. Tantomeno vedo il rischio di scissioni nella Lega, che è ancora un partito solido e compatto».


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