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Jacopo Cardillo, in arte Jago, lo scultore 34enne paragonato a Michelangelo

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All’entrata del museo di Palazzo Bonaparte in piazza Venezia a Roma c’è la fila di ragazze col cellulare in mano. Sono followers di Jacopo Cardillo, in arte Jago, lo scultore 34enne paragonato a Michelangelo, artista che si serve dei social come parte del gesto artistico, venute da tutta Italia e anche da fuori per vedere dal vivo, cioè in pietra fatta carne, le sue monumentali sculture in esposizione dal 12 marzo al 3 luglio.

Le sue seguaci, truccate e vestite a prova di selfie, non vedono l’ora di immortalarsi durante il percorso della mostra, di girare un video dell’esperienza vissuta davanti alle opere del loro idolo, per poi postare tutto sui social. Jago espone al secondo piano del museo, mentre al primo c’è la mostra dell’artista americano Bill Viola, mostro sacro della videoarte.

Dunque per il giovane autodidatta del frusinate, artista e influencer è un trattamento con tutti i riguardi, un grande riconoscimento. La fama dell’artista soprannominato The social artist ha comunque travalicato già da tempo i confini del web. Jago ha esposto dalla China a New York, passando per Napoli, città fertile che lo stimola assai, imprimendo nel marmo le fratture dell’era contemporanea con il virtuosismo che richiama i grandi artisti del passato, iconografia classica con l’iperrealismo dell’era di Instagram.

Ha ricevuto la Medaglia Pontificia nel 2010, il premio Gala de l’Art di Monte Carlo nel 2013, il premio Pio Catel nel 2015, il premio del pubblico Arte Fiera nel 2017 e nello stesso anno è stato nominato Mastro della Pietra al MarmoMac. Scoperto dalla storica dell’arte Maria Teresa Benedetti, è stato selezionato da Vittorio Sgarbi per partecipare alla 54a edizione della Biennale di Venezia a soli 24 anni, esponendo il busto in marmo di Papa Benedetto XVI che gli è valso la Medaglia Pontificia.

Dopo la rinuncia al ministero petrino di Benedetto XVI, Jago ha quindi rielaborato il busto del Papa, spogliandolo dei paramenti e intitolando la sua figura nuda, Habemus Hominem. La scultura esposta a Roma nel 2018, presso il Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese ha avuto l’affluenza record di visitatori: più di 3500 alla sola inaugurazione. Un anno dopo, in occasione della missione Beyond della European Space Agency, è stato il primo artista ad aver inviato una scultura in marmo, raffigurante un feto umano, sulla Stazione Spaziale Internazionale.

L’opera, intitolata The First Baby è tornata sulla terra a febbraio 2020 tenuta in custodia dal capo missione, Luca Parmitano. Qualche critico storce il naso: Jago è bravo, ma la sua non è arte… Luca Beatrice lo ha di recente demolito su Libero: «Il virtuosismo, che peraltro in Jago non è neppure dei più esasperati perché le sue sculture risultano spesso stucchevoli, non è carattere precipuo del terzo millennio, in verità già superato dall’Impressionismo. Solo chi non conosce la storia, anche recente, può trovare stupefacenti queste opere furbastre, ammiccanti a destra e manca con riferimenti, citazioni, scopiazzature ma tutte abbassate di tono».

Beatrice commenta anche il suo “physique du rôle”: “Testa rasata e sguardo intenso da bel tenebroso come il Ciro ancora magro del primo Gomorra”, anche se Jago non sarebbe il primo artista ad essersi creato un look: Cellini andava vestito da soldato, Borromini in total black come un becchino, per non parlare di Leonardo, sempre elegante e con la barba lunga, potremmo dire oggi: tipo Gandalf il grigio de Il signore degli Anelli.

Il fatto è che lo stuolo di followers della generazione Z che lo applaudono ad ogni apparizione pubblica stride con l’immagine melanconica dell’artista, del Michelangelo triste solitario y final. I non addetti ai lavori che l’arte l’hanno sfogliata solo sui manuali di scuola, fanno spallucce e stravedono per lui, che si concede ai seguaci, apre le porte del suo studio attraverso dirette social in cui si filma mentre scolpisce. Su Instagram, dove conta 630mila followers, i complimenti si sprecano, così come i cuoricini, le sfilze di manine che applaudono sotto l’immagine di ogni sua opera: «È di una tale bellezza, che mi viene da piangere», dice una.

«È una vera fortuna averti nella nostra stessa linea spazio temporale. Sei il nuovo Michelangelo», dice un altro. «Ho visto la mostra… meravigliosa, emozionante…strabiliante».

C’è chi gli dedica messaggi appassionati: «Ti scrivo un po’ come si fa quando nei film si mette un messaggio scritto in un foglio dentro una bottiglia che poi sarà abbandonato nell’oblio di un lungo viaggio….. senza una destinazione! Finalmente ho realizzato il mio desiderio di poter ammirare le tue opere! Ho pianto, mi sono commossa , è stato come se il dolore diventasse un dialogo, seguito da uno strano conforto, delicato come una carezza ! Grazie per questa esperienza !», firmato: una tua sincera ammiratrice. L’opera di Jago è dunque social ma nello stesso tempo divisiva: piace ai giovani connessi, a Vittorio Sgarbi che lo ha portato alla Biennale, ma non a chi lo vede troppo pop e inconsistente per arrivare alla fiera di Basilea e nelle collezioni dei musei (citando sempre Luca Beatrice).

Ad ascoltare ciò che dice nei video, si capisce che quello del riconoscimento è uno dei suoi tormenti, da cui ha deciso di affrancarsi con uno scatto di orgoglio o di filosofia zen. «Il vero riconoscimento mica è quello che ti danno domani, oggi, nella contemporaneità le persone che ti criticano o che ti fanno l’applauso», spiega in un video di Artribune, «Il vero riconoscimento avverrà tra cent’anni e a cent’anni io sarò morto. Se noi ci togliamo di dosso l’idea di volere per forza un riconoscimento in tempo reale, finisce tutto il problema, non esiste più. Ci limiteremmo semplicemente a fare quello che dobbiamo fare. Io voglio essere quello che sono, voglio creare le condizioni per portare il mio lavoro al suo livello: io voglio fare l’artista».

Per questo se n’è infischiato di finire l’Accademia di Belle Arti, ribellandosi a chi non lo vedeva pronto per la Biennale, quando aveva già ricevuto l’invito di Vittorio Sgarbi. A scolpire ha imparato da solo, l’anatomia come stella cometa, comprando gli attrezzi da Bricofer. Filmando ogni sua sfida col marmo e condividendo tutto sui social. «Immagina se Michelangelo avesse potuto mettere su Facebook il video in time lapse della realizzazione del David: lo lo avrei voluto vedere… perché spesso la realizzazione è molto più interessante dell’opera stessa», ha spiegato. Chiarendo così anche il suo rapporto con i social: «Fare una diretta lunghissima di un’ora, tre, al giorno, in cui le persone dicono fammi vedere che sta succedendo e ti guardano, (mentre scolpisce n.d.r.) è un po’ il Grande Fratello artistico (…) Quello che una volta era lo spettatore adesso diventa parte attiva del processo creativo. Io voglio strumentalizzare il social per poi condividere nella realtà. Devo quindi riuscire a catapultarti in una dimensione di desiderio tale da voler poi fare il gesto di venire a vedere dal vivo quello a cui tu hai partecipato».

Al contrario del suo modello, Michelangelo, che nel David esprimeva l’idea rinascimentale dell’homo faber ipsius fortunae, artefice del proprio destino, l’umanità di Jago è disorientata. Al posto dello spirito religioso, al testa a testa tormentato con Dio, in Jago alberga lo spirito di denuncia, il rimorso dell’uomo artefice sì, ma di disastri. L’uomo di Jago è parte del mondo solo come scheggia impazzita, come la scheggia marmorea caduta di mano al Figlio Velato, il bimbo disteso come morto e coperto da un velo, scultura ispirata al Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, o si fa piccola piccola, fino a regredire allo stadio di feto appunto, come la scultura inviata alla stazione spaziale.

L’umanità di Jago è dolente come nella Pietà, che al contrario di quella michelangiolesca, raffigura un padre che tiene fra le braccia il figlio morto, ispirata a una foto scattata durante la guerra in Siria. Ha spiegato Jago: «La foto di un padre che raccoglie la sua creatura da terra: credo che questo sia stato il meccanismo che mi abbia fatto venire in mente che il tema della Pietà potesse essere nuovamente interpretato. Tradurre in pietra quel tipo di momento e sentimento era rilevante, sia per affrontare l’amore paterno che per partecipare ai temi della contemporaneità, anche quelli più terribili come la guerra. Fornire simboli rinnovati è come aggiungere una parola nuova nel vocabolario dell’arte».


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