Frances Haugen, 37 anni, informatica statunitense dello Iowa
7 minuti per la letturaQuando Frances ha deciso di sfidare l’impero di Zuckerberg non aveva nessuna intenzione di finire sul rogo come Giovanna D’Arco ma anche lei, come la pulzella d’Orleans, è l’eretica che ha colpito al cuore Facebook di cui è stata dipendente, seppellendo in un colpo anni di narrativa buonista sul social network e mostrando, files trafugati dall’azienda alla mano, che il colosso di Zuckerberg di cui fanno parte Facebook, Instagram e WathsApp punta a privilegiare i contenuti divisivi, rabbiosi e polarizzanti perché creano più engagement e fanno fare più soldi. Alla faccia delle conseguenze psicologiche nefaste che questo ha sulla community, in particolare sui giovanissimi.
Degli effetti collaterali di questa politica, Facebook era bene a conoscenza, perché scritta nero su bianco in una serie di studi interni e riservati che circolavano in azienda e che erano stati volutamente ignorati. Frances Haugen, 37 anni, informatica statunitense dello Iowa, impossessatasi di questi documenti, ha deciso di renderli pubblici e conosciuta ormai da tutti come whistleblower, la gola profonda di Facebook, ora continua la sua avanzata dai talk show al Congresso degli Stati Uniti, al parlamento australiano e inglese nella sua crociata per aprire gli occhi al mondo in difesa degli utenti dai social.
Oggi è a Bruxelles, dove si riuniscono le commissioni del Parlamento Europeo per discutere con gli eurodeputati di come l’Unione possa muoversi contro lo spietato modello di business dei poli tecnologici. Chi pensa che Haugen sia l’informatica pentita che vuole distruggere i social, si sbaglia.
La sua fiducia che la piattaforma possa migliorare è ferma: «I believe that we can do better»: «Credo che possiamo fare di meglio”, ha twittato sul suo profilo. «Insieme possiamo creare un social media che tiri fuori il meglio di noi. I problemi si risolvono insieme, non possiamo farlo da soli». E di fronte al congresso degli Stati Uniti, Haugen ha puntato il dito contro il vero problema di Facebook, la segretezza: «Si nasconde dietro mura che impediscono a ricercatori e regulators di comprendere le vere dinamiche del sistema. Dobbiamo semplicemente credere a quanto afferma Facebook e hanno ripetutamente dimostrato che non meritano la nostra cieca fiducia».
E poi: «L’inabilità di poter guardare ai sistemi effettivi di Facebook e di confermare che lavorino come indicato è equivalente ad un Dipartimento dei Trasporti incaricato di regolamentare le auto solo guardandole passare in strada».
Intanto Zuckerberg ha cercato di difendersi dall’ondata denigratoria che si è abbattuta sul suo Impero dopo le dichiarazioni di Frances. In una nota ai dipendenti ha spiegato: «L’argomentazione che deliberatamente spingiamo per il profitto contenuti che rendono le persone arrabbiate è profondamente illogica. Facciamo soldi con le inserzioni e gli inserzionisti continuamente ci dicono che non vogliono che i loro annunci siano vicino a contenuti dannosi o furiosi. Non conosco alcuna azienda tech che vuole realizzare prodotti che rendano le persone arrabbiate o depresse».
E nel frattempo il Ceo più influente del mondo, anche sotto la spinta del caso Haugen, si è affrettato a cambiare pelle alla sua creatura. Dieci giorni fa all’evento Connect 2021, la conferenza annuale del social, Zuckerberg ha annunciato il nuovo nome dell’azienda: Meta, che in greco significa oltre. «La nuova società sarà Metaverse first, non più Facebook fist, ha spiegato. «Per me simboleggia il fatto che c’è sempre qualcosa da costruire, c’è sempre qualcosa oltre». «Siamo all’inizio del prossimo capitolo di Internet e del prossimo capitolo della nostra società». «Siamo visti come un social media, ma nel nostro dna siamo una società che costruisce tecnologia per connettere le persone». «Mi auguro che nel tempo saremo visti come una società di metaverso».
E poi: «Facebook è uno dei prodotti più usati nella storia. È un marchio icona fra i social, ma sempre di più non include tutto quello che facciamo, voglio ancorare il nostro lavoro e la nostra identità a quello che costruiamo andando avanti».
E quindi, riferendosi indirettamente alle accuse di Haugen, Zuckerberg ha spiegato: «Privacy e sicurezza dovranno essere costruiti dal giorno uno. Tutti quelli che costruiranno il metaverso dovranno essere concentrati su questa responsabilità fin dall’inizio. Questa è la lezione che ho imparato negli ultimi 5 anni: bisogna essere responsabili fin dall’inizio».
Oltre al nome, Facebook ha cambiato anche logo: il simbolo blu dell’infinito, che ricorda una ‘M’, accanto al nome ‘Meta’ scritto in nero. La replica dell’accusatrice di Zuckerberg non si è fatta attendere. Durante l’apertura del Web Summit di Lisbona, Haugen ha colpito direttamente il fondatore di Facebook: «Credo sia improbabile che la compagnia possa cambiare se lui resta CEO». «Serve una guida disposta a focalizzarsi sulla sicurezza». «Spero capisca che c’è tanto di buono che può fare nel mondo» e «potrebbe essere l’opportunità per qualcun altro di prendere le redini» della compagnia.
Dunque la pulzella chiede la testa del fondatore di Facebook. Ma chi è questa donna che è riuscita a far scricchiolare l’impero tecnologico più potente del mondo?
Frances, bionda dallo sguardo deciso è un ingegnere informatico con un master ad Harvard. Dallo Iowa è entrata da subito a lavorare nei grandi colossi technologici: Google, Pinterest, Yelp per sbarcare nel 2019 a Facebook, dove ha lavorato per due anni. Durante un’intervista con cui la gola profonda si è rivelata al mondo, Frances ha spiegato di aver perso una persona cara “a causa delle teorie complottiste”, e questo l’aveva spinta tre anni fa a entrare nell’azienda di Zuckerberg a Menlo Park: «Volevo che nessuno provasse il dolore che avevo sofferto io. E capivo quanto fosse importante garantire che su Facebook circolasse informazione di buona qualità».
È così che viene inserita nell’equipe che si doveva occupare dei messaggi pericolosi durante le presidenziali americane, la squadra si chiama “Civic Integrity”. Ma il gruppo viene sciolto appena terminate le elezioni ed è ormai lettera morta quando scoppiano i disordini al Congresso di Washington organizzati via social dai sostenitori di Trump. È in questo momento che Frances entra in crisi e matura l’idea che l’azienda «non intendesse davvero investire per evitare che Facebook diventasse pericolosa».
Durante quei due anni, sotto gli occhi dell’ingegnere informatico sono passate pagine e pagine di documenti interni che lanciavano l’allarme sugli effetti collaterali del modus operandi di Facebook. Frances, in crisi di coscienza, decide che il mondo deve sapere. Si licenzia da Facebook ma, come in una spy story, prima di lasciare il suo ufficio copia i documenti più compromettenti, pagine e pagine che giravano anche nelle chat dei dipendenti, soprattutto di quelli che all’interno dell’azienda non condividevano la politica di Zuckerberg.
Quindi, una volta fuori, passa all’azione. Si rivolge al Whistleblower Aid, un gruppo non profit che tutela legalmente chi rivela informazioni aziendali per motivi di interesse pubblico. Diventata una sorta di “pentita”, deve mantenere la sua identità segreta e riceve anche un nome in codice “Sean”: col quale gira al Wall Street Journal quelli che diventano famosi come i Facebook file, entra in contatto con alcuni membri del Congresso e denuncia Facebook anche alla Security and Exchange Commission, che protegge gli investitori. Ne esce un’inchiesta dall’eco planetario.
Del resto, le accuse lanciate da Frances/Sean sono gravi. Molto di ciò che dice già si sapeva, ma la ex dipendente ha le prove: le proposte per modificare in modo virtuoso la sicurezza di Facebook venivano regolarmente ignorate o bocciate in nome del profitto. Ma quali sono i nodi centrali delle sue accuse?
Nel 2018 Facebook ha modificato un algoritmo che mette in evidenza ciò che genera maggior partecipazione come contenuti violenti, controversi e rabbiosi, in grado di aumentare l’engagement. Una scelta presentata ufficialmente come un intervento per migliorare le interazioni, ma di cui si conoscevano perfettamente le ripercussioni, ignorate per fare ancora più dollari. Haugen fa anche presente che in azienda erano perfettamente consapevoli che Instagram avesse effetti deleteri sulla psiche dei giovani, soprattutto sulle femmine, perché incentrato sul paragone di stili di vita e canoni di bellezza irraggiungibili, molto più di altre app come TikTok.
Gli studi interni all’azienda parlavano infatti di depressione e tendenza al suicidio, in particolare delle ragazzine. Accuse pesanti come macigni. Ora, una delle soluzioni, secondo Haugen, è la modifica della Sezione 230, l’articolo di legge che protegge le piattaforme online dalla responsabilità su ciò che gli utenti pubblicano, per fare in modo che i social network siano responsabili legalmente di quello che i loro algoritmi promuovono. E chissà se Zuckerberg si deciderà per la pensione anticipata.
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