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COME una matrioska inserita nella scenografia di un film dell’orrore, la guerra in corso in Medio Oriente si presenta come un intricato labirinto di sfide. Esistono tre conflitti distinti che si sviluppano simultaneamente nella regione, i quali a loro volta nascondono un conflitto ben più esteso, in parte già deflagrato, che coinvolge tutto il mondo.

Il primo livello, in superficie, è quello pubblico, dinanzi agli occhi dell’opinione pubblica planetaria, raccontato dai bombardamenti israeliani su Gaza, con migliaia di morti tra i civili palestinesi, che hanno fatto seguito al pogrom di Hamas del 7 ottobre scorso, con 1.200 morti tra gli israeliani e il rapimento di centinaia di persone, trattenute come ostaggi nei tunnel di Gaza. L’unico successo degli sforzi della diplomazia internazionale, ha riguardato il tentativo umanitario di salvare la vita degli ostaggi, tra loro molte donne e bambini. Quella statunitense, facendo pressioni sul governo di Benjamin Netanyahu, quella del Qatar, che ospita e finanzia i leader politici di Hamas, con pressioni sulla fazione militare dell’organizzazione terroristica. Nell’area si continua comunque a morire, anche in territorio israeliano con l’attentato di Gerusalemme di giovedì scorso, rivendicato da Hamas, proprio perché, scendendo sotto la superficie, non siamo dinanzi al consueto conflitto tra israeliani e palestinesi che si è consumato fino agli albori del ventunesimo secolo, il sottofondo dato per scontato a tutte le notizie che provenivano dalla regione.

E qui arriviamo alla seconda guerra, nascosta dalla prima. Hamas non è il popolo palestinese, anche se a Gaza, stabilendo un regime del terrore, dopo aver vinto le elezioni amministrative del 2006, ha preso il controllo politico dell’area e da allora non ci sono più state elezioni. Il primo nemico di Hamas è l’Autorità Nazionale Palestinese, controllata da Fatah, l’organizzazione da cui proviene il leader moderato Mahmud Abbas, successore di Yasser Arafat, che governa la Cisgiordania e che, prima di essere scossa dalle accuse di corruzione e incapacità politica che ne hanno indebolito l’autorità morale sulla società palestinese, ha comunque riconosciuto il diritto all’esistenza dello stato d’Israele.

La leadership di Hamas, dichiaratamente antisemita, si pone invece come obiettivo l’eliminazione dello stato ebraico. E questa è per l’appunto la seconda guerra nascosta dalle armi che tuonano a Gaza, il conflitto per la rappresentanza del popolo palestinese. Nel 2007 si è svolta una vera e propria battaglia a Gaza tra Hamas e l’Anp, con 116 morti e 550 feriti, secondo le stime della Croce Rossa Internazionale. Nella Striscia di Gaza domina un clima generale di repressione, come ha denunciato Amnesty International, culminata con pestaggi, arresti e torture in seguito alle proteste pacifiche contro l’aumento del costo della vita del 2019, che hanno scoraggiato l’espressione pubblica del dissenso verso Hamas. L’ipotesi di un governo di unità nazionale a Gaza come in Cisgiordania si è frantumata e Hamas sta tentando di assumere il comando delle operazioni anche in Cisgiordania, dove a sua volta l’Anp reprime le manifestazioni di dissenso. Anche il leader dell’Anp Abbas è stato protagonista di scivoloni antisemiti, ma è considerato uno dei principali fautori del processo di pace di Oslo negli anni ’90 e un sostenitore del dialogo con gli israeliani. Per questo l’Anp gode dell’appoggio internazionale di Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, un fronte arabo moderato. Il pogrom di Hamas del 7 ottobre scorso mirava a spezzare esattamente l’accordo che si profilava all’orizzonte, sarebbe stato di portata storica, tra Arabia Saudita e Israele, con la mediazione degli Usa, per normalizzare le relazioni tra i due paesi con parziali concessioni ai diritti dei palestinesi.

Come dicevamo in apertura, c’è però una terza guerra in Medio Oriente, nascosta dalla prima e dalla seconda, che riguarda quello interno alla società israeliana. Prima del 7 ottobre Israele era stato scosso da manifestazioni oceaniche, proteste e scioperi senza precedenti contro il progetto di riforma giudiziaria di Netanyahu, tornato al potere alla fine dello scorso anno, guidando il governo nazionalista più di destra della storia di Israele. Una protesta inedita, considerata dagli osservatori specchio di una divisione sociale sul ruolo della religione e dello Stato, un venir meno dei controlli democratici sul potere governativo, con l’aggravante della totale mancanza di qualsiasi orizzonte politico per un futuro condiviso con i palestinesi. Un’opposizione diffusa talmente in profondità da indurre i vertici della sicurezza nazionale ad avvertire Netanyahu che il dissenso stava influenzando la capacità operativa dell’Idf, le Forze di Difesa Israeliane. In questo contesto si è consumata la debacle dell’intelligence israeliana, che aveva ricevuto tutti gli avvertimenti possibili, anche da altri servizi segreti della regione, su quanto stava preparando Hamas.

Ad aggravare la divisione nella società israeliana c’è la questione dei coloni nei territori occupati, principale ostacolo a qualsiasi ipotesi di pace con i palestinesi, visti tutti come nemici. Supportati dai partiti di estrema destra al governo, i coloni, protagonisti di continue violenze verso la popolazione palestinese, non vogliono nemmeno sentir parlare di concessioni, impedendo a Netanyahu di considerare l’opzione di coinvolgere l’Autorità Palestinese a Gaza per trovare una soluzione politica al conflitto. Anche sul piano internazionale gli alleati statunitensi, alle prese con le elezioni presidenziali del 2024, condividono l’obiettivo di porre fine al governo di Hamas a Gaza, ma pongono come condizione a Israele per continuare a erogare aiuti militari la protezione dei civili palestinesi oggetto di una catastrofe umanitaria.

Ma sullo sfondo dei tre grandi conflitti in corso in Medio Oriente echeggia un ulteriore scenario drammatico, delineato prima dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e adesso dalla guerra a Gaza, in cui l’aspirazione alla democrazia è un concetto non condiviso. Esiste un’alleanza tra Hamas e l’Iran, che controlla anche Hezbollah, che bombarda Israele dal Libano del sud, come esiste un’alleanza tra l’Iran e la Russia di Putin. La Cina, più cauta, sostiene economicamente sia la Russia che l’Iran, da cui acquista quantitativi di petrolio sempre crescenti. Il rischio che corre oggi il mondo è che questa alleanza economica, alternativa al modello occidentale, si trasformi in un vero e proprio blocco militare permanente. Da lì alla terza guerra mondiale il passo sarebbe veramente breve.


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