5 minuti per la lettura
IN MEDIO Oriente tra le vittime meno citate della guerra ci sono decine di reporter che svolgevano il loro lavoro per informare l’opinione pubblica: sono oltre 50 i giornalisti e gli operatori dei media rimasti uccisi nel corso dell’assalto israeliano a Gaza seguito al pogrom di Hamas del 7 ottobre. Sono sia palestinesi, per il 90%, che israeliani.
Lo riferisce il Cpj, Committee to Protect Journalists, organizzazione indipendente, con sede a New York, nata per difendere la libertà di stampa e i diritti dei giornalisti in tutto il mondo. La maggior parte dei reporter uccisi a Gaza erano indipendenti, liberi professionisti da cui le testate giornalistiche di tutto il mondo acquistano i servizi. L’Idf, l’esercito israeliano, ha rifiutato di assumersi qualsiasi responsabilità per gli omicidi, dicendo alle organizzazioni dei media internazionali che non possono garantire la sicurezza dei cronisti. Il Cpj da parte sua ha rivolto un appello al governo israeliano affinché riveda le sue regole di ingaggio, in modo che i giornalisti chiaramente identificati siano protetti. L’appello è stato esteso anche a Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Europea affinché facciano pressione sul loro alleato.
Il numero crescente di giornalisti colpiti a Gaza segna un triste record e supera di gran lunga i 15 reporter uccisi nella guerra in corso tra la Russia e l’Ucraina. Secondo il Cpj questo è stato in assoluto il periodo in cui si sono verificate più morti di giornalisti che si occupano di conflitti da quando il gruppo mediatico ha iniziato a monitorare le morti nella regione, dal 1992. L’organizzazione afferma anche che l’andamento dei morti supera di gran lunga quello dei 30 giornalisti uccisi al culmine della guerra civile siriana, precedentemente considerata la zona di guerra più mortale per i giornalisti negli ultimi tempi. Nel frattempo, i giornalisti anche in Israele e in Cisgiordania hanno dovuto fare i conti con attacchi informatici, aggressioni fisiche e altre forme di censura, come l’accusa di “danneggiare il morale nazionale e danneggiare la sicurezza nazionale” mentre riferivano su Israele.
Secondo Sherif Mansour, coordinatore del programma del Cpj per il Medio Oriente e il Nord Africa, si tratta di un vero e proprio tentativo di stabilire un blackout sulle notizie scomode, non solo a Gaza, come quelle relative alla morte di due giornalisti, uccisi il 20 novembre scorso, nel sud del Libano, dove sono in corso scontri tra gli israeliani e le forze di Hezbollah. Farah Omar, e Rabih Al-Maamari sono stati colpiti subito subito dopo aver condotto una diretta televisiva che documentava gli attacchi militari. Marc Garlasco, un ex analista senior dell’intelligence del Pentagono Usa che ha esaminato le immagini, ha detto al New York Times che i fori visibili all’interno di un cratere provocato dall’esplosione e sul muro accanto erano “tipici di un cratere Spike Nlos”, un’arma utilizzata dall’esercito israeliano. Il mese scorso, un video giornalista della Reuters, Issam Abdallah, è morto, sempre nel sud del Libano, durante un attacco missilistico proveniente da Israele.
Reporter Senza Frontiere ha invitato i pubblici ministeri della Corte penale internazionale a indagare sulle morti dei giornalisti. L’organizzazione ha reso noto di aver già presentato una denuncia riguardante i giornalisti palestinesi uccisi nel bombardamento israeliano di aree civili nella Striscia di Gaza, e un giornalista israeliano ucciso durante l’attacco a sorpresa di Hamas nel sud di Israele. Lo Stato ebraico sostiene invece che la Corte penale internazionale non ha giurisdizione nel conflitto, perché la Palestina non è uno stato sovrano indipendente. Inoltre Israele non ha sottoscritto il trattato su cui si fonda la Corte internazionale e non fa parte dei 123 stati membri.
I giornalisti sono civili che svolgono un lavoro importante durante i periodi di crisi e non devono essere presi di mira dalle parti in guerra, ma così non è più da molto tempo. Amnesty International ha documentato prove di violazioni del diritto internazionale nell’intera area, compresi crimini di guerra, da parte di tutte le parti in conflitto, nessuna esclusa. Prima e durante la guerra in corso in questi giorni. Saleh Higazi, vicedirettore per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty, ha denunciato più volte, tra il 2018 e oggi, la violenta repressione delle forze di sicurezza di Hamas contro manifestanti pacifici palestinesi, attivisti, operatori dei diritti umani che protestavano contro il carovita a causa dell’amministrazione del gruppo integralista a Gaza e contro i giornalisti locali che ne davano notizia, arrestati e torturati. Vietata anche in questo caso la documentazione delle proteste contro Hamas, che avrebbe messo in cattiva luce la gestione della striscia palestinese.
L’impunità per violenze e uccisioni di giornalisti rimane la norma nel quadro internazionale. Da quando le Nazioni Unite nel 2013 hanno dichiarato il 2 novembre la Giornata internazionale per porre fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti, ben 261 operatori dell’informazione sono stati uccisi mentre documentavano guerre in corso. In 204 di questi omicidi non è stato identificato nessun responsabile. Il messaggio provocato dall’impunità nei crimini contro giornalisti è chiaro e diretto: spaventare e dissuadere altri giornalisti dal fare il loro lavoro e farlo senza autocensure. Il rapporto annuale del Cpj, compilato prima dell’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, stila una classifica che nel 2023 vede per le morti di reporter ai primi posti Siria, Somalia e Haiti, seguite da Sud Sudan, Afghanistan e Myanmar. Ma il rapporto fa notare che questi omicidi non si verificano soltanto dove troviamo governi instabili, perché riguardano anche Messico, Filippine, Brasile e India.
Il rapporto dell’Unesco sulla libertà di espressione e la sicurezza dei giornalisti, edito nello scorso settembre, si estende ai paesi dove non sono in corso guerre e ci fornisce cifre ancora più impressionanti. Tra il 2006 e il 2021, sono stati uccisi 1.284 giornalisti a causa del loro lavoro. Oltre il 60% degli omicidi è avvenuto in paesi senza conflitti armati. Secondo l’Osservatorio Unesco, nove su dieci di questi omicidi in tutto il mondo rimangono irrisolti dal punto di vista giudiziario. Immagini di giornalisti feriti ai margini di eventi pubblici, dalle manifestazioni alle guerre, sono diventate comuni anche in Europa e in Italia. Vengono aggrediti proprio perché stanno svolgendo il loro lavoro. La posta in gioco ormai è riaffermare il diritto di svolgere questa professione, basilare per la democrazia.
La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.
Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.
Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.
ABBONATI AL QUOTIDIANO DEL SUD CLICCANDO QUI.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA