Josep Borrell
6 minuti per la letturaNon è una novità che la regione dell’Indo-Pacifico stia acquisendo un’importanza crescente a livello geoeconomico. Per molti versi la regione Indo-Pacifica rappresenta attualmente il centro di gravità economico e strategico del mondo. Era già così prima della pandemia Covid-19 e lo è ancor di più oggi. La zona di confluenza degli oceani Indiano e Pacifico che si estende dall’Africa orientale al Pacifico occidentale rappresenta una regione strategica integrata. L’UE è strategicamente collegata a tale regione in diversi modi: attraverso legami in campo commerciale come pure nel settore degli investimenti e della sicurezza.
Secondo Standard & Poors, il Prodotto interno lordo della regione globale è cresciuto dal 27% del 2000 al 37% del 2021: un aumento considerevole che contribuisce a spiegare come il potere economico si sia progressivamente spostato – o per meglio dire redistribuito – dall’Occidente al “resto del mondo”. Questa transizione è avvenuta soprattutto a discapito dell’Unione Europea, che ha visto la propria “fetta” di Pil erodersi nello stesso periodo dal 26% al 17%: ed è questo un altro motivo che aiuta a spiegare come mai l’UE abbia perso terreno a livello internazionale e anche in Sud-Est asiatico e stia finalmente cercando di colmare questo divario.
La regione sta anche diventando un crocevia sempre più importante a livello commerciale, come dimostrano le numerose iniziative in campo, tra accordi preferenziali di libero scambio e forum di cooperazione economica più o meno formalizzata. Si pensi per fare qualche esempio alla Trans-Pacific Partnership, al Regional Comprehensive economic partnership che vede la presenza della Cina, passando per iniziative ormai consolidate come l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) e il più recente Indo-Pacific Economic Framework.
All’interno della regione coesistono e si sovrappongono accordi preferenziali che, se da un lato testimoniano il dinamismo economico della regione, dall’altro potrebbero portare a frizioni di natura economica e geopolitica a causa di interessi confliggenti non solo tra i Paesi che fanno parte dell’area ma soprattutto a causa dell’influenza che le potenze esterne giocano.
All’interno della stessa sono diversi i Paesi che intendono avere un ruolo da protagonista. Il Vietnam, ad esempio, si sta configurando come nuovo manufacturing hub nel Sud-Est asiatico grazie al basso costo del lavoro e alla buona produttività che lo sta trasformando in una alternativa sempre più richiesta rispetto alla Cina, come testimoniato dal fatto che negli ultimi anni il 20% delle mancate esportazioni di Pechino verso gli Stati Uniti sono state sostituite da Hanoi. Si pensi anche all’Indonesia che, dopo aver ospitato un G20 andato tutto sommato bene, nonostante la complessa congiuntura internazionale, sta vivendo una fase di boom economico (in controtendenza rispetto all’Occidente) con una crescita che nel 2022 supererà il 5% grazie agli alti prezzi delle materie prime.
A questa regione guardano le superpotenze come gli Stati Uniti, ma anche l’Unione Europea si sta muovendo, sia pure con una potenza di fuoco che è per forza di cose minore rispetto a quella che gli USA possono mettere in campo, sia a livello economico che strategico. L’UE del resto può giocare carte importanti per tornare al centro della scena di questa regione. È un partner economico chiave per l’area dell’Indo-Pacifico: gli scambi tra i due blocchi rappresentano il 70% delle transazioni commerciali globali e circa il 60% degli Investimenti Diretti Esteri, con una cifra che nel 2019 aveva raggiunto 1.500 miliardi di euro per giungere a 1.700 miliardi nel 2021.
L’UE è complessivamente il principale investitore nell’area, all’interno della quale Cina, Giappone, India e Corea del Sud figurano tra i dieci primi partner commerciali di Bruxelles. Con Giappone, Singapore, Corea e Vietnam sono già in vigore accordi di libero scambio, mentre a luglio l’UE ha lanciato anche la propria strategia per l’Indo-Pacifico: un documento che in buona sostanza mette in collegamento le iniziative esistenti nell’area a livello bilaterale per inserirle nel quadro dell’Autonomia Strategica Europea, di cui la politica commerciale è un pilastro importante. Un “mattone” fondamentale dell’architettura UE nell’Indo-Pacifico è la relazione con i Paesi dell’ASEAN, con i quali si è svolto di recente un vertice. L’occasione, che è servita anzitutto a celebrare 45 anni di rapporti, ha fornito l’occasione per rilanciare la partnership economica sia a livello commerciale (riaffermando l’intenzione di concludere in tempi rapidi l’accordo di libero scambio con l’Indonesia), sia di investimenti attraverso l’impegno di stanziare 10 miliardi di euro da qui al 2027 per progetti infrastrutturali nei Paesi della regione.
Le recenti mosse degli Stati Uniti in tema di politica commerciale sono state eloquenti nel prendere di mira la Cina come principale avversario, e quindi contenerlo da un punto di vista economico. Le restrizioni all’export di semiconduttori e altro materiale tecnologico sono state seguite dal recente rapporto annuale della US-China Economic Security and Review Commission, che ha definito Pechino come una “potenza in competizione”, arrivando persino a ventilare tra le possibili opzioni l’ipotesi di revocare a Pechino lo status di nazione più favorita in ambito WTO. Le mosse dell’amministrazione Biden nei confronti dell’Indo-Pacifico vanno dunque inserite nell’ottica del raggiungimento di questo obiettivo e cercano di contrastare la Cina. Dal canto suo, l’Unione Europea cerca di recuperare il terreno perduto facendo leva sulla propria vasta rete di accordi di libero scambio per intensificarla ulteriormente con i Paesi della regione, anche se l’approccio bilaterale potrebbe essere limitante e frammentato.
“Poiché diversi Stati membri dell’UE (ad esempio Francia, Germania e Paesi Bassi) hanno adottato una strategia o orientamenti a livello nazionale per quanto riguarda la regione indo-pacifica, è giunto il momento di fare altrettanto anche a livello di UE” spiega Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza e vice presidente della Commissione Europea. “L’obiettivo è che l’UE definisca, nei prossimi mesi, una visione comune per il suo futuro impegno nella regione indo-pacifica” raccomanda Borrell. “Adotteremo certamente un approccio ampio e inclusivo, ponendo l’accento sul nostro sostegno alle iniziative regionali e multilaterali. E dobbiamo tener conto che è importante non solo ciò che facciamo in quanto UE e la regione Indo-Pacifica, ma anche ciò che facciamo per i Paesi della regione in materia di commercio e investimenti, clima e biodiversità, tecnologie emergenti o nuove minacce per la sicurezza. Il denominatore comune sarà il nostro interesse a difendere e delineare approcci basati su regole”.
Ma tra Stati Uniti e UE, c’è (si fa per dire) un terzo incomodo: è la Repubblica Popolare Cinese. La Cina è infatti impegnata a punta a evadere l’accerchiamento statunitense che viene sempre più caratterizzato non solo da aspetti economici, ma anche da un approccio di contrasto valoriale, come evidenziato dalla narrazione del contrasto tra autocrazie e democrazie. L’azione cinese è di presentarsi come un soggetto “aperto” agli scambi commerciali, in contrasto ad un approccio di tipo strategico. Tali argomentazioni sono state presentate anche in occasione della creazione dell’accordo militare tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia (AUKUS), cui i cinesi hanno contrapposto la richiesta di adesione al CPTPP. Alle parole dovranno però seguire i fatti, in termini di accesso al mercato cinese e di competizione “fair” da parte di soggetti economici privati cinesi. Di sicuro è possibile sostenere che la competizione tra Stati Uniti, Unione Europea e Cina passerà per gli accordi economici regionali.
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