Joe Biden
6 minuti per la letturaL’Unione Europea rischia la deindustrializzazione? Il rischio è tutt’altro che remoto. Tra Stati Uniti d’America e Unione Europea corre buon sangue. L’alleanza storica non è in discussione. E la guerra che la Russia ha scatenato contro l’Ucraina, se ancora ce ne fosse bisogno, ne è stata la controprova. Ma una cosa sono la politica estera e le relazioni internazionali, altra cosa l’economia e il primato economico a cui gli americani non intendono rinunciare. Mai. Cambiano gli inquilini della Casa Bianca (da Donald Trump a Joe Biden), ma non cambia la musica. Gli Stati Uniti sono la prima potenza economica, politica e militare e intendono conservare questo primato. A qualsiasi costo.
Con l’Inflation Reduction Act, la legge fortemente voluta dall’amministrazione guidata dal democratico Biden per accelerare la transizione verde dell’industria, gli Stati Uniti vogliono “soffiare” le compagnie all’Europa. Come? Mettendo sul piatto ben 369 miliardi di dollari (350, 947 miliardi di euro) tra sussidi e agevolazioni fiscali. Anche nel settore dell’idrogeno le sovvenzioni americane sono ora cinque volte quelle europee. Uno spread che si aggiunge a quello dei costi dell’energia. Alcune compagnie come la tedesca BASF (chimica), ma anche alcune italiane (Pirelli) stanno valutando l’opzione Usa. Ma Ora l’UE prepara la contromossa: una legge anti-reshoring, ma servono soldi, tanti soldi, che l’UE non ha.
Per far fronte ad una dipendenza strategica dalla Cina e nel tentativo di rivitalizzare la filiera nordamericana, dalle miniere ai mercati, in un’ottica di decarbonizzazione è stata concepita questa legge: una misura che il Dipartimento dell’Energia statunitense ha definito come “l’investimento singolo più massiccio sull’energia e il clima nella storia americana”. L’Inflation Reduction Act (IRA), infatti, prevede in varie forme circa 369 miliardi di dollari di incentivi green per accelerare l’adozione delle rinnovabili tra i consumatori e finanziarie nuovi poli minerari e produttivi, con lo scopo di favorire la fabbricazione di batterie elettriche, turbine eoliche, pannelli fotovoltaici e infrastrutture per l’idrogeno.
La maggior parte dei quali concepiti per prodotti fabbricati da compagnie statunitensi. È il caso, per esempio, delle esenzioni previste per i produttori americani di batterie: l’IRA, infatti, prevede per gli OEMs che dimostreranno di essersi approvvigionati sul suolo americano per i battery metals potranno ricevere uno credito d’imposta di 7.500 dollari, oltre ad un ulteriore rimborso sui costi di produzione del 10% e circa 35 dollari per KWh per ogni cella prodotta negli Stati Uniti.
In particolare, nel 2029 il 100% delle componenti delle batterie dovranno essere prodotte negli Usa per poter soddisfare i requisiti dell’IRA. Per quantificare la portata della sfida, il ceo di Northvolt Peter Carlsson ha dichiarato che l’azienda svedese potrebbe accedere a 836 milioni di dollari in aiuti federali tramite l’IRA, circa il quadruplo di quanto offerto dal Governo tedesco.
In aggiunta, l’attuale spirale inflazionistica e il prezzo dell’energia elettrica – sul quale alcuni funzionari europei accusano gli Usa di speculare, tramite le forniture di gas naturale liquefatto (LNG) – rendono il contesto europeo meno allettante per nuovi investimenti, con il mercato americano che potrebbe assorbire potenzialmente una vera e propria emorragia industriale dall’Europa.
L’amministratore delegato di Volkswagen, Thomas Schaefer ha similmente ricordato che i costi energetici sul vecchio continente mettono le gigafactories in difficoltà precarie, come accaduto a Britishvolt, oltre a ritenere le regole comunitarie sugli aiuti di stato obsolete di fronte alla portata della politica industriale americana. Per scongiurare tali scenari e dunque l’escalation in una disputa commerciale con Washington, Bruxelles ha attivato una Task Force per affrontare bilateralmente la questione nella prossima riunione del Trade and Technology Council (TTC) che si terrà il 5 dicembre.
L’obiettivo è chiedere agli alleati di rispettare i principi del libero mercato e di una competizione sulle filiere tecnologiche green che non metta a repentaglio il fronte euro-atlantico, rendendo iniziative multilaterali – come la Minerals Security Partnership – del tutto inefficaci ai fini della re-industrializzazione.
Un’altra industria europea, cruciale per il Green Deal, è in seria difficoltà. I giganti dell’eolico, come la danese Vestas e la ispano-tedesca Siemens Gamesa hanno registrato importanti perdite nell’ultimo trimestre, rispettivamente di 150 milioni e 1 miliardo di dollari. Il motivo? L’inflazione crescente e la crisi delle filiere, registrati dall’aumento dei prezzi di materiali tradizionali come cemento, acciaio e zinco; la lentezza burocratica che rende il business incerto nonostante i target europei, su tutti il REPowerEU Plan (510 GWs entro il 2030); infine, la crescente competizione delle industrie cinesi, che dominano il mercato delle componenti più high-tech come i generatori e la supply chain dei magneti.
Senza contare la dipendenza dai materiali per il medio-lungo periodo: in uno studio di Siemens Gamesa, “il primo del suo genere”, ha dichiarato il CEO Jochen Eickholt, si stima che per costruire turbine eoliche (onshore e offshore) necessarie per la transizione energetica europea al 2050 saranno necessari: 120 milioni di tonnellate di acciaio, 6,5 milioni di tonnellate di fibra di vetro, 1.6 milioni di tonnellate di fibra di carbonio, 1.3 milioni di tonnellate di rame, 800.000 tonnellate di alluminio e 100.000 tonnellate di terre rare. Seppur siano numeri relativamente piccoli rispetto ai volumi di produzione globali, l’industria eolica europea necessità di “un supporto forte e immediato dai decisori” per poter operare in “un contesto di mercato complesso”.
Attualmente, il gas naturale costa sei volte di più in Europa che negli USA. A causa di questa asimmetria, l’aumento annuo dei prezzi alla produzione è molto più marcato per le aziende europee rispetto a quelle statunitensi: +42% vs +8,5%. Di conseguenza, nei primi dieci mesi dell’anno l’industria dell’Ue è stata costretta a razionare l’utilizzo di gas (-13% rispetto alla media dei tre anni precedenti) e quindi la produzione. Viceversa, l’industria americana ha persino aumentato i suoi consumi di gas (+5%). Proprio a causa degli alti prezzi dell’energia in Europa, secondo un sondaggio della Camera di Commercio tedesca, l’8% delle imprese nazionali intervistate starebbe valutando di spostare parte della produzione fuori dai confini europei. Tra queste anche BASF, il gigante tedesco del chimico. Un’emorragia industriale che l’Ue vuole evitare a tutti i costi.
Ed è a partire dagli approvvigionamenti di materie prime e delle misure politiche a supporto che la Commissione dovrà intervenire per salvaguardare la competitività del mercato interno. L’European Critical Raw Materials Act vedrà la luce, plausibilmente, entro aprile 2023. Nel frattempo, si è chiusa una consultazione pubblica che ha visto diversi stakeholders condividere analisi e position papers, dalle industrie minerarie alle associazioni di categoria, centri di ricerca e privati: Rare Earth Industry Association (REIA), Eurometaux, Transport&Environment, EIT Raw Materials, Critical Raw Materials Alliance, Albemarle, ISPRA, Istituto Geologico Finlandese e Svedese, Northvolt, Rolls-Royce e Volkswagen sono solo alcuni degli enti interessati a plasmare la prossima normativa.
Una soluzione diplomatica con Washington sembra al momento improbabile. Così come l’avvio di una disputa commerciale con gli USA, proprio quando il fronte occidentale deve mostrarsi compatto. A Bruxelles, si ragiona quindi sulla creazione di un fondo per la sovranità (già menzionato da von der Leyen nel discorso sullo stato dell’Unione) per incanalare denaro nelle industrie chiave europee. Una soluzione su cui spinge la Francia (ma anche gli Stati Uniti) che però deve convincere la Germania, tradizionalmente avversa a politiche industriali incentrate sui sussidi. I giochi sono aperti. Vediamo chi vince.
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