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SULLA questione demografica si gioca il futuro delle nazioni, quello economico come quello culturale e la scuola è la struttura portante dell’assetto produttivo di uno Stato. Nel nostro Paese però il dibattito sul calo delle nascite, che neanche l’innesto di nuove forze dalla presenza di migranti riesce a frenare, viene spesso ridotto dalla politica a dibattito ideologico sulla bioetica. Una recente ricerca della rivista Tuttoscuola sulle conseguenze della dinamica demografica negativa, studio basato sui dati ufficiali del ministero dell’Istruzione e del merito, ha però fatto suonare un campanello d’allarme impossibile da ignorare.
Negli ultimi dieci anni, ci dice la ricerca, in Italia hanno chiuso 2.600 scuole tra quelle per l’infanzia e primaria. Nei prossimi cinque anni ne chiuderanno almeno altre 1.200, tra statali e paritarie. “La scuola italiana sta scomparendo, come i ghiacciai”, ha titolato il britannico Guardian con mirabile sintesi, riprendendo i risultati dello studio. L’Italia ha raggiunto nel 2022 il minimo storico di nascite, solo 393 mila, mentre negli ultimi 10 anni le scuole dell’infanzia hanno perso 456.408 iscrizioni, pari a quasi il 30% degli alunni. A questo ritmo entro il 2034 ci saranno 1,4 milioni di studenti in meno dai tre ai 18 anni, rispetto ai 7,4 milioni del 2021, e molte scuole dovranno chiudere. Ma sulla media nazionale pesa come un macigno il dato del Sud: delle 2.600 scuole chiuse dal 2014 ben 1.700 erano nel Meridione, ovvero due terzi del totale.
Scomponendo il dato delle 2.600 chiusure, scopriamo che sono quasi equamente divise tra pubbliche e private. Se la chiusura di 1.424 scuole private è addebitabile alla crisi economica, che ha reso impossibile per molte famiglie far fronte ai costi, parliamo delle scuole per l’infanzia e primarie, le 1.176 chiuse dallo Stato sono distribuite per il 70% tra il Sud e le Isole. Il Nord-Ovest è invece toccato dal 15% delle chiusure, il Nord-Est dal 10% e il Centro dall’11%. Il Governatore uscente della Banca d’Italia Ignazio Visco, durante le sue ultime considerazioni finali ha disegnato lo scenario futuro conseguente al calo demografico: nel giro di poco più di quindici anni, nel 2040, in Italia avremo 6 milioni di lavoratori in meno.
Un aiuto può venire, ha spiegato, dalla gestione dei flussi migratori con politiche di formazione e integrazione per l’inserimento nel tessuto produttivo e sociale. Il nesso tra calo demografico ed economia passa dunque per la scuola e la formazione. Un problema di cui è cosciente il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, che rispondendo alle sollecitazioni dello studio di Tuttoscuola ha ampliato le proiezioni, prevedendo per i prossimi 10 anni un calo di 300 mila studenti per le scuole medie e di 500 mila per le superiori. La conseguenza che possiamo facilmente immaginare sarà un ulteriore accorpamento delle classi esistenti, che diventeranno sempre più numerose. L’aumento delle classi sovraffollate può però compromettere l’attenzione individuale e la qualità dell’apprendimento degli studenti.
La situazione sarebbe già difficile così, ma al puro dato statistico dobbiamo aggiungere altre considerazioni, a partire da quelle territoriali. In Italia, ci spiega la rilevazione dell’Istat basata sul 2021, il calo demografico delle zone rurali è più accentuato rispetto alla media europea. In queste zone si registrerà una riduzione degli abitanti del 5,5%. Una drastica diminuzione che investirà soprattutto il Sud, con una riduzione della popolazione pari all’8,8%. Parliamo di un territorio che oltre al calo demografico deve far fronte allo spopolamento dovuto a migrazioni verso il Nord del Paese o all’estero. Esistono poi lungo tutta la penisola 1.086 comuni denominati dall’Istat “aree interne”, zone del nostro territorio con assenza o scarsa presenza di servizi essenziali come salute, istruzione e mobilità. In queste aree diminuirà quindi l’offerta formativa, con la conseguenza di ulteriori migrazioni interne o aumento di abbandoni scolastici. I tagli di budget e la mancanza di risorse, con la cancellazione di corsi e laboratori formativi che si aggiungevano alla didattica ordinaria, rischiano di creare un’ulteriore disuguaglianza di opportunità e curriculum sia su base regionale che all’interno delle stesse regioni.
Veniamo adesso all’altro aspetto del problema, che riguarda gli insegnanti, non meno penalizzati degli studenti. Le cattedre secondo lo studio, passerebbero da 684 mila a 558 mila nei prossimi dieci anni, con una riduzione media di circa 10 mila posti di lavoro ogni anno. Garantire stabilità e benessere degli insegnanti per garantire la qualità dei percorsi scolastici è un’altra sfida che il nostro Paese dovrà affrontare, se vuole restare competitivo nell’Unione europea. Potrebbero essere necessarie nuove strategie di reclutamento e formazione per garantire insegnanti qualificati e preparati ad affrontare le esigenze educative in evoluzione. E per garantire agli insegnanti il raggiungimento di stabilità in tempi meno lunghi e logoranti di quanto avvenga adesso. Una possibile risorsa per studenti e insegnanti è individuabile anche nell’adozione delle tecnologie digitali per l’insegnamento, ancora più cruciale nel contesto del calo demografico e della difficoltà crescente nel raggiungere sedi lontane. L’esperienza delle lezioni in remoto durante la pandemia da covid ci ha mostrato cosa significa in italiano “digital divide”.
Al momento esiste ancora un divario molto consistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie informatiche e chi ne è escluso, in modo parziale o totale. L’Italia non può più permettersi altri ritardi sulle infrastrutture digitali. Garantire un’istruzione di qualità a tutti gli studenti, indipendentemente dalla loro provenienza geografica e dalla crisi demografica è forse la priorità principale in questo momento dell’Italia. Gli insegnanti, con strumenti adeguati, possono essere il fattore decisivo di questo percorso. Occorre però un approccio collaborativo della politica e una visione a lungo termine dell’evoluzione didattica che al momento, in un Paese dove le divisioni si moltiplicano anziché diminuire, non sembra patrimonio comune. La passione che si registra per dibattiti pur importanti, come quello sull’informazione pubblica, non sembra trovare altrettanto impegno civile in campo scolastico. La gravità della situazione è però dinanzi agli occhi di tutti e, usando un tono sopra le righe necessario quando è in gioco il futuro di molte generazioni, sarebbe criminale ignorarla.
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