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IL DIBATTITO sulla legittimità dei monumenti torna ciclicamente a ripresentarsi sulla sfera pubblica. Adesso, in seguito all’uccisione di George Floyd a Minneapolis ed all’imporsi del movimento Black Lives Matter, i manifestanti statunitensi hanno abbattuto alcune statue dedicate a militari e politici della confederazione, portando nuovamente l’opinione pubblica ad interrogarsi circa la legittimità del gesto.

La discussione si è accesa nuovamente anche in Europa, dove spesso è accompagnata da posizioni critiche che difendono la salvaguardia della tradizione storica. Per poter ragionare sulla questione serve tuttavia contestualizzare, considerando innanzitutto che quanto sta accadendo negli USA si sta verificando in uno scenario urbano che non è un ambiente neutro.

Se sembra già riduttivo parlare della “brutalità delle rivolte”, prescindendo da un’analisi socio-economica sul sistema statunitense e sul razzismo strutturale a cui ha portato, appare ancor più ingenuo ignorare l’aspetto caratteristico della rivolta. Siamo infatti davanti ad un modello che presenta la rivoluzione come modalità attraverso la quale abbattere il potere costituito al fine di tutelare diritti che non si ritiene siano garantiti. Non tutte le proteste si accompagnano a forme di violenza, ma le rivoluzioni spesso sì, mirando ad un obiettivo di cambiamento che nasce e si esacerba in un contesto in cui difficilmente si potrebbe agire con modalità differenti. In un simile scenario appare consequenziale che si assista all’abbattimento di quei monumenti che sono tracce storiche del sistema contro cui i rivoltosi si scagliano, fatto di soprusi e di oppressione dei più deboli, e la cui distruzione rappresenta simbolicamente la produzione di un cambiamento sociale.

Va pure sottolineata la differenza che intercorre tra chi vuole rinnovare l’ambiente urbano per revisionismo storico o damnatio memoriae e chi vuole rimuovere delle statue considerate sgradevoli, soprattutto contestualmente ad una forma di protesta anche ideologica. Questo discorso appare attuale anche nel dibattito pubblico italiano, nel quale molti si sono schierati in difesa delle opere pubbliche e della “memoria storica”. Per quanto riguarda quest’ultima, dovremmo forse considerare l’errore concettuale che commettiamo nel confonderla con una memoria di tipo collettivo. La memoria e la storia sono due cose differenti, la seconda è un divenire ed una tensione perpetua che la prima può solo assumere in modo soggettivo. La memoria può cambiare nel suo ricordo del passato, la storia si dà ancora nel suo futuro svolgersi, cosicché abbattendo una statua non si cancella la storia ma, al limite, si assiste al suo articolarsi. Questo non significa sostenere che si debba ignorare il passato, ma piuttosto che sia necessario evitare che un ricordo assuma i contorni di una sorta di culto memoriale.

Pensare che si possa cristallizzare la storia nella sua narrazione porta a tutte quelle posizioni che difendono la legittimità delle opere pubbliche “di per sé”, come testimonianza di un passato che si ritiene inviolabile. Abbattere un simbolo non significa tuttavia cancellare la storia, ma semmai modificare la modalità con cui si sceglie di raccontarla e ricordarla. In Italia su alcuni giornali si è parlato addirittura di “deriva iconoclasta” sottolineando che se ( in un paese come il nostro) volessimo abbattere tutto ciò che richiama a discriminazioni ci troveremmo ben presto in una sorta di deserto culturale. L’esempio che più è stato citato è forse quello della Colonna Traiana, in quanto “testimonianza dell’imperialismo romano e ricordo della sottomissione dei Daci”. Chi sostiene l’inviolabilità dei monumenti, sottolinea l’assurdità di cancellare dalla nostra cultura quello che potrebbe essere interpretato come un inno all’odio, non ottenendo nulla di più che traslare il problema sul piano architettonico, senza risolvere nulla ma piuttosto distruggendo un’opera. Il problema tuttavia non è affatto questo, nessuno pensa di abbattere i monumenti della Capitale proprio perchè la memoria legata alle opere muta con il variare dei tempi storici, e nessuno pensa alla Colonna Traiana come simbolo di oppressione, ma unicamente come reperto.

La situazione culturale e sociale italiana è molto differente da quanto sta succedendo negli Stati Uniti, dove quei monumenti restano ancora attualmente legati allo scenario sociale su cui si vuole operare un cambiamento importante. Questo perché esiste semmai una memoria di tipo sociale e collettivo, che si inserisce nell’ambito pubblico ed è pertanto soggetta a reinterpretazioni condivise, ma non una inviolabile memoria storica. Pensare che non si possa operare un mutamento per una sorta di devozione verso il passato è ignorare lo stesso divenire storico e negarne il suo senso ultimo come divenire.

Non siamo alla fine di una storia che va preservata perché giunta al suo termine, ma piuttosto la osserviamo nel suo naturale accadere e la distruzione delle statue non significa mutare la storia passata, ma provare ad influire su quella futura. L’architettura, per quanto bella possa essere, non è solo struttura ma è pure contenuto, ma questo non lo evinciamo mai da quello che preso di per sé è semplicemente un manufatto.


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