Il Palazzo del Vicariato e la facciata laterale della Basilica di San Giovanni in Laterano dopo l'attentato (foto Diocesi di Roma Archivio Gennari)
4 minuti per la letturaQUANDO la mafia attaccò la chiesa. Due detonazioni diverse ma l’eco fu praticamente la stessa. Non tanto per la loro vicinanza temporale o geografica quanto per la risonanza che suscitarono quando il sole del 28 luglio 1993 illuminò il cielo della Capitale. Un’Italia che aveva appena affrontato il primo anniversario delle stragi di Capaci e Via D’Amelio si ridestava da una delle tante notti insonni di metà estate ritrovandosi di fronte due immagini: da un lato le ferite visibili su due chiese di Roma, dall’altro un quadro astratto che dipingeva una consapevolezza più matura sulla natura reale della criminalità organizzata che, per la prima volta, lanciava la propria sfida anche alla casa di Dio. Perché gli obiettivi scelti non erano due qualsiasi: San Giorgio al Velabro, poco distante dal Campidoglio, dilaniata da un’autobomba, ma soprattutto San Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma, la chiesa più importante della cristianità.
Il torpore del sonno estivo era stato spazzato via dal gelo di una paura che ritornava con la prepotenza di un sentimento vissuto solo poco prima, troppo poco perché potesse essersi già allontanato. Anche perché il tremendo gioco degli incastri aveva immediatamente preso forma: ci si rese immediatamente conto che dal grido di papa Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento non erano trascorsi nemmeno tre mesi. Un appello alla conversione diretto a coloro «che portano sulle loro coscienze tante vittime umane». Ribadito quello stesso giorno, prima di far visita ai luoghi colpiti: «Non è col disprezzo per Dio e per l’uomo che si costruisce una società umana e civile».
Trent’anni dopo, quel «Convertitevi» pronunciato dall’ora santo papa Wojtyla continua a risuonare con forza. Un appello che fu più forte delle bombe stesse, le cui onde sonore sono diventate man mano più indistinte. Anche perché, quella stessa notte, a Milano esplose un’altra autobomba, davanti al Padiglione di Arte Contemporanea di Via Palestro. Era ancora la tarda serata del 27 luglio e le vie meneghine contavano ancora un discreto numero di passanti: i morti furono 5, mentre non se ne contò nessuno a Roma. Sulle due chiese colpite c’era il sangue dei feriti (22 in tutto) ma anche i segni tangibili di una violenza cieca perpetrata da chi si arrogava il diritto di poter decidere della vita e della morte altrui.
Il risultato ottenuto, ancora una volta, fu l’opposto: così come il Paese si era unito contro le mafie, quasi fosse stato ridestato, dopo gli orrori delle stragi di Palermo del 1992, la Chiesa fa altrettanto. Sulla pietra d’angolo delle parole del Santo Padre, la preghiera e la fraternità diocesana rispondono alla violenza, dando vita a una celebrazione eucaristica, la sera del 30 luglio, proprio sul sagrato della cattedrale. Alle spalle del cardinal vicario, Camillo Ruini, le ferite aperte di un attacco vile, perpetrato nelle tenebre. Di fronte a lui, la risposta di unità di un popolo che dimostra di non aver paura. E, forse per la prima volta, divenne definitivamente evidente l’inconciliabilità tra mafia e Chiesa, tra l’essere mafiosi e l’essere cristiani.
Il 1993 fu l’anno della strategia stragista sul “Continente”. Il tritolo, lo stesso impiegato per squarciare il tratto autostradale di Capaci e per ridurre Via D’Amelio a un cratere fumante, aveva lasciato la Sicilia per estendere la minaccia mafiosa anche al resto del Paese. Il 27 maggio era toccato a Firenze, con la bomba di via dei Gergofili che spazzò via la vita di una famiglia intera e di uno studente universitario. L’attacco della mafia alla Chiesa, invece, segnava un punto di svolta nella logica della criminalità organizzata – che sarà sancita del tutto solo un paio di mesi più tardi, con l’omicidio di don Pino Puglisi a Palermo – che violava il dettame di intoccabilità dell’istituzione religiosa e tentava, in tal modo, di scoraggiare i pastori a interferire con la strategia della monopolizzazione dei territori. Le vicende processuali riconobbero colpevoli, come mandanti, i principali boss delle cosche siciliane, tra i quali Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro e Bernardo Provenzano. Enorme l’impatto sull’opinione pubblica che, forse più nel corso del 1993, riconobbe, in modo inquietante, come gli effetti della strategia della tensione mafiosa fossero estremamente prossimi alla vita quotidiana.
A tre decenni di distanza, e con almeno un paio di generazioni diventate adulte o quasi, è chiaro che il processo di storicizzazione tenga ancora conto della vicinanza temporale degli eventi. Sicuramente meno impressi nella memoria civile dei più giovani rispetto alle stragi siciliane. Ma forse per questo il dovere della memoria diventa più che mai un’occasione per riflettere sugli eventi e sul loro impatto nella coscienza della società. In una notte la mafia svelò il suo volto più vile, denigrando vita e religione con la forza bruta dell’esplosivo. Di contro, si ritrovò a sua volta smascherata. Il velo ingannatore di alternativa allo Stato era stato spazzato via dalle stesse bombe che avrebbero dovuto imporne il potere.
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