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Ambra angiolini ai tempi di Non è la Rai

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Tutto è iniziato con la tendenza Y2K, acronimo di Year 2 Kilo, utilizzata dalla Gen Z per riportare in auge i simboli degli anni 2000. Dalle passerelle ai TikTok, abbiamo gradualmente riscoperto i glitter, i choker, i jeans a vita bassa – che speriamo tornino presto nel dimenticatoio – personaggi come Paris Hilton o Lindsay Lohan, serie tv come Gossip Girl e Sex and the City che si rivelano rispettivamente muse e fonti d’ispirazione per prodotti commerciali di successo come Euphoria.

Dall’estetica alla cultura pop il passo è stato breve e anche nel nostro Paese la tendenza ha preso immediatamente piede, al punto che proprio l’edizione 2023 del Festival di Sanremo è sembrata ai più attenti una perfetta campagna Y2K. Basti pensare ai ritorni – attesissimi – sul palco dell’Ariston delle sorelle Iezzi, degli Articolo 31, di Giorgia e di Gianluca Grignani. Proprio noi, quelli della generazione cresciuta negli anni ’90 con Beverly Hills 90210, O.C., Non è la Rai, le boyband, i primi personal computer e i cavi Ethernet, siamo nuovamente al centro dell’attenzione e i ventenni di oggi guardano a quel periodo in maniera quasi ossessiva.

Secondo la Gen Z, infatti, gli anni Duemila hanno rappresentato l’ultimo baluardo di creatività artistica e culturale, cui è seguita una lunga fase di decadenza che dura ancora oggi. Dal cinema agli anime, dalla musica ai videogiochi, tutto ciò che è stato prodotto in quegli anni è improvvisamente diventato iconico, virale, oggetto di celebrazione. La Gen Z ci guarda con un misto di incredulità e ammirazione, come se i festival che hanno segnato quel periodo – Rock in IdRho e Heineken Jammin’ Festival su tutti – fossero stati la nuova Woodstock, una spanna sopra il Coachella e sinonimo di spettacolarità al pari dei Queen a Wembley.

Tra noi Millennials, lo ammettiamo, serpeggiano l’incredulità, l’orgoglio e la sensazione che sia tutto un po’ cringe – stato d’animo particolare, frutto di disagio e imbarazzo insieme. Andiamo per ordine, prendendo come esempio proprio il Festival di Sanremo e gli album in uscita in queste settimane.
Di primo acchito, guardando Paola e Chiara o gli Articolo 31 sul palco, abbiamo cantato con orgoglio e con la mano sul cuore “Festival” e “Ohi Maria”. Qualcuno di noi aveva persino gli occhi lucidi, qualcun altro ha cercato i compagni di classe del liceo o la prima cotta su Facebook, altri ancora hanno rispolverato i primi lettori Mp3 pensando alle playlist stagionali, alle estati con il Festivalbar, ai trilli.

Dopo molto tempo, abbiamo avuto la sensazione di essere visti, finalmente: persino la tv generalista e le case discografiche si erano accorte della nostra esistenza e avevano deciso di premiarci restituendoci i nostri idoli, le nostre manie, le nostre passioni. Questa operazione, ammettiamolo, ha fatto piacere a moltissimi Millennials, sebbene bisogni ammettere che continuare a fare ciò che facevamo da giovani – balletti compresi – sia decisamente cringe e il cringe, si sa, a volte fa ridere, ma soprattutto fa vendere. Il rovescio della medaglia, tuttavia, è presto servito.

A imitare Paola e Chiara nei balletti su TikTok siamo sempre e per lo più proprio noi Millennials, che vediamo i primi capelli imbiancare, notiamo di tanto in tanto un accenno di ruga, ci ostiniamo a scattare selfie che pubblichiamo nelle storie di Instagram con filtri che non utilizza più nessuno e ci aggrappiamo a questo revival per cercare di sfuggire alla precarietà, all’immobilismo della società e alla politica che, sprezzante, ci dimentica. Nostalgici dei falò intorno a cui cantare “Destinazione Paradiso”, degli episodi di Ranma ½, di TRL, di “T’appartengo” di Ambra e chi più ne ha più ne metta, godiamo di questo ritorno alla nostra età dell’oro con le unghie, con i denti e con i meme, come insegna la pagina satirica “Sapore di male”.

Manifesti generazionali diventano così veicolo di desideri e ansie latenti, occasione per ricaricarsi e rivivere ciò che c’era di buono nell’immaginario e nel panorama pop degli anni ’90 e Duemila cercando, tuttavia, di rifuggire un effetto nostalgia che sarebbe controproducente.

Continuare a riscrivere i nostri ricordi, in chiave malinconica o ironica, potrebbe diventare a lungo andare una vera e propria tortura: la nostra è una generazione già abbastanza sfortunata, abbiamo davvero bisogno di riscaldare la minestra della nostra adolescenza come se ci avesse riscritto un ex qualunque? Siamo ormai adulti e sgomitiamo per un posto nel mondo, è già sufficiente.


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