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Sono le 8:20 di un normale mercoledì mattina. Ho sempre odiato il mercoledì, anche se prima viene il martedì. Questa però è una settimana particolare, venerdì 1 maggio non si lavora. Il riposo del guerriero. Ho scoperto che è normale farneticare quando si trascorre molto tempo in casa con se stessi. E questa quarantena lunga chissà quanti giorni – perché ormai abbiamo perso il conto – che ha tutta l’aria di una perdita di tempo, in realtà ha il sapore di un’occasione. Vivo a Milano da dieci anni, ma sono una Calabrese convinta. Di quelle che invece di scappare, per l’amore della propria terra, è rimasta qui fin dall’inizio, a convivere con il virus.
La Lombardia è una delle zone più colpite, ma saperlo non mi ha mai fatto paura. Abbiamo rispettato le regole fin dall’inizio, senza cedere al panico o alla paura. La nostra vita però è cambiata, su questo non ci piove. La mattina si passa velocemente dal pigiama alla tuta, non si corre più dietro agli autobus pieni di gente assonnata, non si beve più il caffè nel solito bar, non si vedono più le facce e i sorrisi dei colleghi, non si passa più dal supermercato dopo lavoro a prendere qualcosa da scaldare per la cena. Ma (perché c’è un ma) si possono imparare tante altre cose.
La prima è che non siamo noi ad essere schiavi del tempo, ma è il tempo ad essere nostro schiavo. Possiamo controllarlo, domarlo, servircene quando ne abbiamo più bisogno. L’unica nostra padrona, quella che se non c’è è come vivere in un limbo, è la forza di volontà. Senza quella, il tempo tornerà a farci suoi. E allora ho capito che dedicarci un po’ a noi stessi qualche volta, allentare la presa, curarci, vederci più belli, cambia un po’ la nostra vita. Anche se siamo chiusi in casa con il pigiamone e il pc perennemente acceso. Mantenerci attivi, anche quando qualcuno ci chiede di spegnere per un po’ l’interruttore, ci aiuta a non impazzire.
Quante volte avete detto nella vostra vita: “vorrei avere un po’ di tempo per me”? Tantissime, ne sono sicura. E attenzione, tempo per me, può significare molte cose: avere il tempo per migliorarsi, avere il tempo per leggere o scrivere, avere il tempo per dedicarsi ai propri affetti. Il tempo può essere impiegato in tantissimi modi, se impariamo a controllarlo. E questa quarantena, con tutti i suoi lati terribilmente negativi e dolorosi che comporta, ci sta insegnando a controllare il tempo. Che a solo a dirlo – “controllare il tempo” – mi sento già più zen.
Un’altra cosa che ho imparato è che quel famoso momento della vita di cui tutti parlano, in cui a un certo punto ti ritrovi davanti alle tue scelte, giuste o sbagliate che siano, prima o poi arriva. E per me è arrivato proprio adesso. Perché ho scoperto di aver investito su qualcosa di giusto, di averci visto lungo, di aver creduto, per fortuna, nei miei sogni. Ma questo l’ho scoperto solo grazie a questa quarantena che ci ha improvvisamente catapultati nel 2040, dove tutto è digitalizzato e il lavoro diventa liquido. E allora devi essere bravo a reinventarti, a riadattarti, ad accettare il cambiamento, senza subirlo.
Provate a fare una lista di scelte, di passioni coltivate, di sì e di no detti in passato, che vi hanno portato fin qui. Quale di questi vi è servito di più in questi ultimi mesi? Lo so, non è una cosa facile, ma vi assicuro che una volta trovati vi aggrapperete a queste piccole conquiste passate, per rivedere il vostro futuro prossimo. Tutto cambierà, questo è certo. Noi saremo cambiati. Forse, chi amava la vita casalinga e la solitudine, apprezzerà di più le uscite con gli amici, e al contrario, chi non riusciva proprio a stare a casa, imparerà ad amare anche quei piccoli momenti di silenzio che fino a qualche tempo prima erano così preziosi.
Ciò che ho imparato però in queste settimane che definirei “distanti”, dal mondo e dall’umanità, è che non siamo mai stati tutti così vicini nello stesso momento. I Paesi, le Regioni, le città, i quartieri, i vicini di casa. E tutto questo grazie alla tecnologia, da molti considerati come prima ragione di asocialità. E quindi, cos’è che abbiamo imparato maggiormente da tutto questo? Che la tecnologia, i social media, possono e devono aiutarci a sentirci vicini solo quando siamo veramente distanti, e non quando siamo seduti al tavolo del ristorante con la nostra migliore amica o con il nostro compagno. Il telefono si accende solo quando abbiamo bisogno di un po’ di condivisione, che in questo periodo tradurrei più con la parola solidarietà. I nostri smartphone si sono trasformati in oggetti di pura e vera condivisione.
Sono diventati strumenti per aiutare gli ospedali, per trasmettere dei messaggi importanti, per mostrare al mondo, senza troppi giri di parole, la violenza che molte donne hanno subito tra le proprie mura domestiche. Si sono trasformati in finestre sul mondo anche per chi prima li considerava solo dei palcoscenici. Ci divertono, ci commuovono, ci rendono informati, ci danno la possibilità di toglierci quei piccoli piaceri che prima erano considerati normali, anzi banali. Ma soprattutto, se finiscono nelle mani giuste, ci dimostrano che non dobbiamo per forza essere tutti vicini per condividere un’emozione, magari di fronte alla canzone del nostro cantante preferito o davanti alle lacrime di una ragazza che riabbraccia dopo mesi sua nonna di 80 anni e più guarita dal Covid-19.
Abbiamo visto cosa succede negli ospedali, abbiamo finalmente capito che i medici sono eroi tutti i giorni della loro vita, e non solo in casi di difficoltà come questo. Non ci voleva il Covid-19 per capirlo, dovevamo arrivarci da soli, molto tempo fa. Ma un giorno racconteremo tutto questo ai nostri nipoti come una specie di Guerra Mondiale, con le sue vittime e le sue conquiste, se veramente ce ne saranno. E chi l’avrebbe mai detto che avremmo imparato tutto questo dal divano di casa nostra?
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