Un ristorante vuoto
3 minuti per la lettura«L’altro giorno è entrata una signora, rimasta vedova e col figlio che lavorerà sino a tardi anche la sera della vigilia; mi ha detto che sarà sola a Natale per la prima volta nella sua vita. Una storia da lacrime: l’ho rassicurata spiegandole che se fossimo stati aperti poteva venire da noi ma abita in un altro comune e non potrà muoversi. A quel punto mi sono offerto di portarle un menù a domicilio». A chi vive la ristorazione come una missione, quella di «fare stare bene le persone», le prossime festività riserveranno ben poche gioie, con il danno economico della pandemia che si assocerà all’impossibilità di creare, nei giorni più attesi dell’anno, un clima sereno e conviviale. E’ il caso di Vincenzo Butticè, siciliano d’origine trapiantato a Monza – dov’è proprietario di due locali – e cofondatore di “Ristoratori uniti”.
Un settore a cui non basta la «morfina», così la definisce lui, rappresentata dalla possibilità di restare aperti a pranzo il 25 e il 26 dicembre e il 1° e il 6 gennaio concessa dall’ultimo dpcm.
«Se consideriamo che le nostre aziende sono in crisi di liquidità è comunque meglio di niente – spiega al Quotidiano del Sud – ma è ovviamente una misura insufficiente. Le festività natalizie, in condizioni di normalità, rappresentano da sole il 14% del fatturato annuo totale della ristorazione, circa 14 miliardi di euro». Mazzata che arriva dopo quelle già subite a partire dal lockdown della scorsa primavera. «In base ai nostri calcoli – prosegue – ogni 30 giorni di chiusura il settore perde 13 miliardi. Il risultato? Il 50% delle aziende di ristorazione rischia di chiudere. Verrà spazzata via un’intera generazione imprenditoriale».
A poco servirà il probabile passaggio in zona gialla di tutte le regioni italiane entro metà dicembre che consentirà dovunque l’apertura dalle 5 alle 18. «Il mercato trainante è quello serale – commenta – in un ristorante normale lo scontrino medio di un pranzo va dagli 8 ai 12 euro mentre a cena si può salire sino a 30. Questo tipo di organizzazione non ha alcun senso. Il rischio di contagio è lo stesso, sia di giorno che di notte». Andavano, insomma, utilizzati criteri diversi. «Bisognava stabilire dei vincoli di recettività» dice Butticè «con la regola dei 4 metri quadri per commensale so che se ho un locale di 100 metri quadri potrò ospitare al massimo 25 avventori contemporaneamente. Se supero questo limite è giusto che venga punito. Invece di colpire chi non rispetta le regole si è deciso di fare di tutta l’erba un fascio. Ciò denota l’incapacità di controllare il territorio ed è preoccupante».
Come lo è il diffuso clima di paura che scoraggia i potenziali clienti. «La domanda è condizionata da questi timori – ammette – ma registriamo anche tanta voglia di sostenerci». Dal governo, invece, sinora sono arrivati bonus e poco altro.
«Anche quella è morfina – afferma – un’azienda che fattura 800mila euro e ha 25 dipendenti cosa ci fa con 20mila euro? Occorreva intervenire sugli affitti, regolamentare le bollette, ridurre gli oneri contributi e previdenziali piuttosto che mettere i dipendenti in cassa integrazione, metterci nelle condizioni economiche di gestire i flussi in equilibrio oltre a bloccare i licenziamenti. A cosa serve far slittare le tasse se tanto non produco? Senza contare che continueremo a pagare la Tari, a parte lo sconto del 5%, per periodi in cui siamo stati chiusi non producendo rifiuti». Come sempre, conclude, «in Italia manca un approccio di sistema. Siamo bravissimi a gestire le emergenze ma non abbiamo una visione su come ripartire. Anche a pandemia finita sarà difficile vedere la fine del tunnel».
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