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Il 3 dicembre, in Italia, sono morte novecentonovantatré persone. La cifra più alta raggiunta in un giorno dall’inizio della pandemia. Durante la seconda ondata c’è dunque stato il maggior numero di decessi per covid in un Paese che, per un breve periodo, si raccontava persino di essersi lasciato alle spalle la fase più critica.
Eppure, al di là dei dati comunicati, queste cifre sembrano essere diventate vuote. Si ha ormai l’impressione che il numero dei morti si riduca brutalmente ad una somma matematica, in un contesto nel quale si auspica una riduzione dell’entità dei danni sufficiente a consentire quel tanto agognato “ritorno alla normalità”.
Ma il 3 dicembre, in Italia, quasi mille famiglie hanno subito un lutto. Se lasciarsi coinvolgere eccessivamente dalle tragedie ostacola la lungimiranza con cui queste potrebbero essere affrontate, in questo caso siamo ben lontani da un moderato distacco emotivo.
Durante l’ultima diretta di Palazzo Chigi, nella quale sono state spiegate le nuove misure contenute nel DPCM di dicembre, non è stato fatto alcun accenno al dato nazionale registrato nella medesima giornata, nè ci si è rivolti alle famiglie delle vittime.
Nel giorno in cui in Italia si è registrato il più alto numero di decessi, il Paese pensava solo al Natale. Se durante la prima ondata avevamo notato un incoraggiamento ad una riflessione ampia su ciò che stava accadendo (spesso addirittura ai limiti dello stucchevole) adesso la narrazione corre sul filo della rimozione collettiva.
Siamo passati da un eccesso all’altro, l’ossessiva preoccupazione per un miglioramento morale si è trasformata nel suo contrario. Queste cifre si ammassano l’una sopra l’altra, mentre ci si preoccupa di salvare le feste a scapito di quella umanità di cui tanti si sono riempiti la bocca durante questa emergenza. Lo spazio emotivo viene recuperato solo quando diventa strumentale, quando ce ne serviamo per legittimare un’apertura volta al consumo.
E se il problema della chiusura delle attività commerciali è un problema reale e serio, non viene nemmeno più presentato come preoccupazione economica, quanto piuttosto come pretesa di svago.
Si pretende una riapertura perché ci si appella al “diritto alle feste”, con ostinata e cieca indignazione nei confronti della classe dirigente. Un Governo che ostacola le feste è un Governo cattivo, cosicché i provvedimenti adottati per il controllo dell’emergenza diventano un attacco personale alla libertà dei singoli. L’irresponsabilità coscienziosa si traveste da posizione politica, rischiando così di diventare ancora più pericolosa.
Ancor più grave è che questo atteggiamento non sembri caratterizzare solo una parte dei cittadini, ma pure i media e la stampa tutta. L’audience predilige discussioni sterili sull’orario di nascita del Salvatore, presunte lettere di bambini inviate a Palazzo Chigi, ma nessuna analisi approfondita sui tempi che corrono. C’è una superficialità latente che ha esacerbato l’insoddisfazione di un Paese non più unicamente noncurante, ma anche irrispettoso. Non ci si preoccupa del Natale per il valore eventualmente religioso, ma in linea di principio, perché le feste si “devono” trascorrere coi parenti.
Che poi anche su questo si potrebbe dire, perché in Italia i nostri cari sono solo quelli descritti da un Decreto, certificati. Sono morte novecentonovantatré persone, ma quello che conta è capire cosa servire al cenone. Intanto, chi governa non solo non fa appelli al senso di pudore, ma neppure nomina i decessi. Parecchi esponenti del panorama politico italiano, nel corso di questa pandemia, hanno spesso citato – a volte più o meno a sproposito – autori classici, citazioni colte, finanche finezze lessicali dal greco.
Non è mai svanito il ragionevole dubbio che si sia trattato di raffinatezze di posa, ma si aggiunge il timore che, per trattare questo tempo con la complessità che meriterebbe, al Governo debba cadere l’occhio sulla parola “pietas”.
Abbiamo preteso un 24 in famiglia per recuperare il senso di comunità delle feste, eppure lo abbiamo perduto nell’indifferenza verso il dolore degli altri. Ma se l’etica vacilla, resta la preoccupazione che a furia di voltare la testa dall’altra parte questo spasmodico bisogno di normalità possa incidere negativamente su quegli stessi numeri che, ormai, disturbano il nostro Natale.
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