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Da qualche tempo la comunicazione, in particolare quella televisiva e pubblicitaria, opera secondo la retorica del “riscoprirsi uniti”, insistendo sulla solidarietà e sul buon cuore della popolazione italiana. Addirittura, si sente parlare di una sorta di conseguenza virtuosa dell’emergenza sanitaria, sottolineando come una situazione tanto difficile abbia la capacità di far riscoprire il valore dei legami umani e dell’empatia, abbandonando lo stereotipato rancore che abitualmente palesa la nostra frammentazione nazionale.
Ci siamo ritrovati a dover gestire una situazione collettiva senza precedenti, una tragedia che si è consumata sul nostro territorio in modo contemporaneo ed indistinto. Nell’affrontare l’emergenza l’Italia s’è riconosciuta dunque simile in ogni sua parte, unitariamente colpita dall’epidemia, così che davanti al virus sono sembrati persino affievolirsi i tanto radicati pregiudizi regionali. Dovremmo aver scoperto ragioni valide per sentirci compatti, ma sembra piuttosto che da questa situazione siano emersi non solo nuovi motivi di divisione, ma altrettante umane contraddizioni.
Partendo proprio dalla dicotomia Nord/Sud, se il fondamentale contributo meridionale e la condotta dei suoi abitanti hanno consentito di limitare l’espansione del contagio, laddove la tenuta sanitaria italiana è stata agevolata dalle regioni del Sud, quelle settentrionali hanno reagito in modo rinnovatamente ostile. La narrazione del “meridionale indisciplinato” ha lasciato ora spazio ad una sorta di vittimismo difensivo da parte delle regioni del Nord, palesando l’incapacità di riflettere sui limiti di una gestione regionale ed un sistema sanitario ritenuti impeccabili.
Le nuove forme di razzismo antimeridionale sono modi differenti di darsi del medesimo sentimento di intolleranza e sono solo una piccola parte del diffuso sentimento di malessere che, in un momento di difficoltà, non contribuisce al miglioramento morale degli individui, ma pare esacerbare una condizione di odio generalizzato. Eppure nelle pubblicità la gente si tiene per mano, promettendo solidarietà, continuando a ripetere di stare “distanti ma uniti”.
Qualche giorno fa, la notizia della liberazione di una nostra connazionale dopo 18 mesi di prigionia sarebbe dovuta essere stata accolta come un momento di rafforzamento nazionale e di unità. Invece, prima ancora che Silvia Romano rientrasse in Italia si è accesa una polemica durissima sul prezzo che lo Stato avrebbe pagato per il suo riscatto. Un costo insostenibile per riportare nel nostro Paese quella che è stata additata come “traditrice della patria”, in seguito alle indiscrezioni (che sarebbero dovute rimanere private) in merito ad una sua conversione all’Islam. Questa scelta, senza neppure soffermarsi sul fatto che sia dettata o meno da libera volontà, non è stata contestata rispetto alla modalità con cui è avvenuta, ma proprio rispetto al credo in sé. La conversione della Romano sembra addirittura essere diventata un problema di sicurezza nazionale solo per poter giustificare un radicato sentimento xenofobo, legittimato dalla finta volontà di tutelare la Nazione in cui Silvia Romano non è giudicata degna di stare. Su alcuni quotidiani sono comparsi titoli come “Silvia l’ingrata, islamica e felice”, che ad un razzismo malcelato aggiungono la rabbia e la delusione per aver rimpatriato una ragazza che non sembra aver sofferto abbastanza. Che la Romano sostenga di non aver subito abusi dovrebbe umanamente essere accolta come una notizia positiva, non come motivo di rammarico.
Forse la paura, l’emergenza, ci hanno visti più collaborativi fra noi, ma non ci hanno in alcun modo resi migliori. L’unico elemento che sta emergendo in modo netto come sentimento di unità è l’insofferenza, verso qualunque dolore non sia il nostro. Qualche giorno fa è stata approvata la sanatoria sui migranti irregolari, voluta dalla ministra Bellanova. Le critiche che sono state mosse al provvedimento non sono state principalmente di natura costruttiva, ma perlopiù si è trattato di semplice razzismo, spesso associato ad insulti sessisti contro la Bellanova. La colpa di questa inequivocabile retorica dell’odio viene spesso imputata a quei partiti che fondano la propria propaganda su questi meccanismi, ma va sottolineato che nessun esponente politico avrebbe effettivamente la capacità di fomentare sentimenti negativi se questi non fossero già presenti in modo tanto diffuso.
Per migliorare non basta infatti inserirsi nello svolgersi della storia, accogliendo le difficoltà in modo passivo nella speranza di apprendere una sorta di insegnamento etico, ma occorre imparare a perfezionarsi. Da mesi sembriamo martiri che invocano e pretendono da altri una solidarietà che siamo evidentemente incapaci di dimostrare a nostra volta. Se all’inizio dell’emergenza si diceva che non l’avremmo scordata, pare che ora l’unica volontà salda sia quella di dimenticarsene in più in fretta possibile e tornare alla normalità. Una normalità rancorosa e giustificata dall’egoismo di evitare ulteriore sofferenza. Un sentimento, come diceva qualcuno, umano e troppo umano. Tristemente più reale della finta retorica buonista di quella comunicazione che sfrutta il dolore per vendere un prodotto inesistente.
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