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C’è stato un momento molto preciso nella storia degli sparatutto e simulatori “di guerra” dove le cose sono pesantemente scivolate verso il peggio. Una volta era tutto un ricostruire con la fantasia: gli avversari potevano essere strani mostri, alieni carognosi, mercenari per nulla realistici, strane organizzazioni da film 007, oppure ricostruzioni storiche fortemente fedeli alla realtà delle cose e di grandissimo impatto della Seconda guerra mondiale. Ancora oggi i più “vecchiotti” si ricordano della bellissima ricostruzione della riconquista di Stalingrado e la presa dei Reichstag con tanto di bandiera rossa a sventolare sul tetto nei primi due Call Of Duty, dove certamente non c’erano sconti nei confronti della crudeltà e la violenza del conflitto mondiale. Gli anni erano tra il 2002 e il 2005. Nel titolo dello scorso anno, invece, non solo sono stati depennati gli eserciti sovietici ma l’intera campagna è stata inquadrata solo dalla parte americana. Questo mentre i nemici sono stati “ripuliti” persino dei simboli che li hanno sempre riconosciuti (le svastiche).
Cosa è cambiato? Molto, tutto. La ragione sta a qualche anno prima quelle ricostruzioni digitali. E’ ovviamente l’undici settembre 2001, con il suo carico di morte e spettacolo. “Il mondo è cambiato” dissero nelle ore immediatamente successive e in ogni anniversario. Cambiò il modo di fare la guerra, il nemico da distruggere, la geopolitica. Gli aeroporti sempre più simili a bunker, lo sdoganamento del controllo di massa, il potenziamento tecnologico con telecamere sempre più intelligenti. La guerra “sporca” fatta con droni robot tra le nuvole impossibili da distinguere e vedere a occhio nudo. Una guerra che ha macinato milioni di dollari e tonnellate di armamenti mentre prendeva piede il concetto di “sicurezza” per come oggi, in questo strano mondo globalizzato “infettato” dalle rivolte popolari, lo intendiamo. Un grande schema di controllo massificato: dai social alle auto che guidiamo. Un po’ di barba lunga e il colore della pelle che rischiano di non farti passare al gate di un volo di linea, il sospetto totale al semplice parlare una lingua “altra”.
E nei videogiochi di guerra le cose sono andate più o meno allo stesso modo. Si è passati da queste grandi epiche narrazioni sulla crudeltà umana nel secolo scorso, senza sconto alcuno anche su quelli che sarebbero dovuti essere “i buoni”, ad impersonare forze speciali americane sempre calate in teatri di guerra mediorientali. Il nemico, magicamente, è diventato un uomo con kefiah al collo nascosto tra le dune del deserto, un mercenario russo ex membro del Kgb che traffica con armi nucleari, un “regime” socialista portatore di fame e morte. Non nascondiamoci dietro un cespuglio, gli sparatutto in prima persona sono un mercato enorme negli Stati Uniti, che si sa hanno una certa fascinazione sacra per le armi. Oggi, in attesa del 2020, è il Washington Post, in una straordinaria inchiesta con documenti ufficiali fino ad oggi nascosti sotto il tappeto a raccontarci che quella guerra in Afghanistan, nata dopo l’11 settembre con il preciso intento di sconfiggere Al Qaeda, si è trasformata in un tremendo business da miliardi di dollari senza una strategia precisa. Una manovra che solo agli Usa è costata 2300 soldati e miliardi di dollari spesi per diciotto anni di guerra sporca e, documenti alla mano, anche inutile e mal congegnata. In tutto questo tempo il mondo dell’intrattenimento si è spinto sempre più avanti, mostrando attraverso la finzione una visione assolutamente manichea della questione.
Gli Americani ritratti negli sparatutto sono sempre dei liberatori, non esiste confine tra l’uomo e l’idea, sono tutti rudi, con licenza di uccidere, tecnicamente e tatticamente preparati al meglio ma comunque pieni di buoni sentimenti per i proprio compagni, guidati dal supremo ideale del “libera tutti”. Che esista una comprovata alleanza tra intelligence militare, la Cia e il mondo dei videogiochi è roba che arriva agli anni Ottanta. Molto spesso l’esercito Usa ha avvicinato sviluppatori per costruire la simulazione perfetta di un teatro di guerra. Lo è stato fatto ancora con accordi milionari nel 2003 e nel 2013 quando uno dei direttori della serie Call od Duty, Dave Anthony è stato inserito in un progetto governativo chiamato “Art of the future war”, una sorta di think tank di Washington composto dal Pentagono e, tra gli altri, dal fanatico di destra Oliver North, tenente colonnello dell’esercito americano e ben noto per le sue operazioni di destabilizzazione in Sudamerica negli Ottanta. North ha anche ottenuto un cameo nel gioco, oltre ad aver fornito le sue conoscenze come “consulente militare” proprio per uno dei titoli di Call Of Duty uscito nel 2012, Black Ops.
La connessione è potente, così tanto che in giro per i videogiochi ci sono vere e proprie ricostruzioni di fatti accaduti qualche anno dopo, o addirittura cambiamenti di prospettiva su crimini di guerra o atti estremamente controversi del mondo reale. Prendiamo quello che è accaduto al Venezuela a marzo di quest’anno. Una lunga serie di blackout che ha aperto la porta ad un processo di destabilizzazione del paese guidato da Nicolas Maduro, insidiato dall’opposizione di destra di Juan Guaido, ampiamente foraggiata dagli americani grazie alle uscite pubbliche di Donald Trump e dall’Europa tutta. Pochi giorni dopo quella serie di accadimenti che hanno paralizzato il Venezuela le cronache hanno cominciato a raccontare di virus informatici inseriti nei sistemi di controllo dell’elettricità, di processi di destabilizzazione e di “golpe” in corso.
Tutte cose già viste in un videogioco: Call Of Duty Ghosts, anno di grazia 2013. Prendiamo un attimo il plot e le assurde somiglianze con la vicenda venezuelana. In questa storia di fiction il Medio Oriente è stato distrutto da bombe nucleari mentre in Sudamerica, a partire dal Venezuela, è stata costituita una “federazione di paesi socialisti” che ha preso il controllo della produzione petrolifera. Il nostro compito, come giocatori, è quello di uccidere i leader di questa federazione invadendo con le forze d’élite il territorio venezuelano. E basta andare a vedere i graffiti sui muri digitali di questo gioco per rendersi conto che le immagini dei rivoluzionari socialisti ritratti sono estremamente simili a quelle dell’ex presidente venezuelano Hugo Chavez. Gli sviluppatori, oltretutto, hanno ritratto i leader socialisti nella maniera più vicina possibile al simbolo chavista: indossano tutti berretti rossi, proprio come l’ex presidente venezuelano morto nel 2013. Chiaramente il loro omicidio è pesantemente enfatizzato nel gioco, con slow motion e sangue a profusione. Ma all’interno di Cod Ghosts sono tanti i “sussurri” ai giocatori. Dietro la facciata di purissimo intrattenimento tattico-militare si nasconde (e manco tanto) la gigantesca macchina della propaganda americana. Ad un certo punto il nostro personaggio rientrerà a Caracas per compiere un atto di sabotaggio: inserire un virus all’interno del sistema di gestione della rete elettrica, costringendo la capitale al buio più totale. Al lancio il gioco ha venduto copie per un miliardo di dollari, oltre ad essere stato il titolo più giocato in Nord America sulle allora console di ultima generazione (Playstation3 e Xbox 360).
Un vero e proprio manifesto pro Usa e anti resto del mondo, che con la sua retorica assolutamente di parte ha di fatto spinto centinaia di migliaia di giocatori a costruire un pensiero univoco e dominante sulle vicende accadute poi nel mondo reale. Ed è così a profusione: in tutti i titoli della serie c’è questa tendenza autocelebrativa: i militari che uccidono Fidel Castro, i russi che sono quasi sempre senza scrupoli e umanità. Ma il caso certamente più eclatante di questa macchina mangiasoldi ad alto tasso di propaganda è quello dell’autostrada della morte, o anche: come far passare un crimine di guerra americano in una invenzione dei russi.
In Call Of Duty Modern Warfare, uscito quest’anno, c’è una missione chiamata “L’autostrada della morte”. Lo scenario è un paese fittizio mediorientale, l’Urzkistan. Il nostro agente della Cia deve preparare un’imboscata sfruttando l’unica strada di collegamento verso le montagne per acchiappare i terroristi, una sorta di cellula guidata dai russi e un gruppo di miliziani dal nome “esotico” ma molto simile a quello vero: Al Qatala. Lo scenario è quello di un teatro di guerra già combattuto con centinaia di veicoli distrutti lungo questa strada sterrata in una piana desertica. Segno che qualcosa di pesante è accaduto: ce lo spiega la nostra compagna miliziana all’inizio della missione, nella fase di briefing: “I russi l’hanno bombardata, uccidendo persone innocenti che cercavano di fuggire”. Lo scenario, quindi, sarebbe la zona dove i militari russi hanno sfogato tutta la loro crudeltà. Peccato che l’autostrada della morte è un fatto realmente accaduto durante la prima guerra del Golfo, segno dell’uso estremamente sproporzionato della potenza di fuoco americana. Autostrada della morte, infatti, è il soprannome dato ad una superstrada che collega Kuwait City all’Iran, direzione Bassora. Nel 1991, nella notte tra il 26 e il 27 febbraio l’esercito iracheno in ritirata fu attaccato da un devastante attacco aereo americano. L’assalto, coordinato su due fronti, portò al bombardamento delle due colonne di mezzi in ritirata, intrappolando centinaia di persone in ritirata lungo quella striscia di terra. Nella colonna infatti non c’erano soltanto le forze irachene ma anche prigionieri di guerra, prigionieri politici e rifugiati palestinesi. I giornalisti di guerra dell’epoca raccontarono e fotografarono quanto accaduto subito dopo, mostrando al mondo l’enorme colonna di mezzi inceneriti. Non fu mai etichettato come “crimine di guerra” per una ragione che a volte supera l’assurdo: le vittime non furono più di “qualche centinaio”, visto che molti fuggirono nell’immediato bombardamento.
Sta di fatto che nel mondo rovesciato dell’intrattenimento questo accadimento, non spiegato e per nulla contestualizzato nonostante il teatro di guerra fittizio, viene incredibilmente ripescato come schema da passatempo e infine attribuito ad una controparte che in questi contesti geopolitici attuali reali non sembra più essere tanto amica degli Usa. Un modo per poter scatenare nuovamente qualche sentimento nei giovani videogiocatori e consegnare l’ennesimo paradosso alla massa, che spesso passa sopra la storia pur di premere un grilletto virtuale. Ci possiamo fidare di quello che ha detto il direttore narrativo della serie Taylor Kurosaki? «Il motivo per cui l’Urzikstan è un paese immaginario è perché stiamo trattando temi che si sono ripetuti negli ultimi 50 anni in paesi e località in tutto il mondo. Non stiamo facendo assimilazione di un particolare paese o di un conflitto particolare. Questi sono temi che si ripetono più e più volte, nel nostro gioco non descriviamo nessuna parte come buona o cattiva». Allora va bene tutto. Anche stringere accordi con l’Esercito pur di intrattenere.
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