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Cronache dall’assedio: «In questo momento siamo una dozzina di internazionalisti a combattere a Serekaniye a fianco dei nostri amici curdi, arabi, turchi, armeni e assiri. Siamo sotto un continuo bombardamento dell’aviazione e dell’artiglieria turca. I gruppi islamici e la polizia turca tentano di infiltrare le nostre truppe. Non ho idea di quanto riusciremo a resistere, anche perché le forze imperialiste sono così codarde da voltarci le spalle anziché salvarci. Questo potrebbe essere il mio ultimo messaggio». Così tre giorni fa scriveva Serhat Tiqqun sul suo account Facebook, 22 anni combattente internazionalista, originiario francese in forza alle unità di protezione popolare Ypg.
Proprio lì, a Serekaniye, nella piccola cittadina al confine con la Turchia, uno dei luoghi cardine della resistenza curda alle truppe turco-jihadiste, secondo il bollettino di guerra diffuso e aggiornato costantemente dalle Syrian Democratic Forces e dall’agenzia di stampa internazionale Anf News, la situazione delle ultime ore sarebbe di circa 90 jihadisti uccisi e feriti altri 80. Con altrettanti feriti tra i combattenti delle Sdf, da sempre baluardo contro il terrorismo nero.
A ciò si aggiungono gli ultimi dati diffusi dalle Nazione Unite: almeno 200 mila persone sfollate dai territori attaccati, ospedali e scuole bombardate e una centrale d’acqua da cui si rifornivano circa un milione di persone messa fuori uso.
A 110 chilometri da lì, a Kamishilié – dove nella giornata di sabato è rimasta uccisa in un agguato Hevrin Khalaf, attivista per i diritti delle donne e segretaria del Partito Futuro della Siria, che ha fatto della pacifica convivenza tra curdi, cristiano-siriaci e arabi uno dei punti cardine del suo impegno – come si legge in una nota rilanciata da Rete Kurdistan Italia «è stato commesso un attentato suicida, rivendicato da Isis, nel quale ci sono stati morti e feriti».
Ma il popolo curdo, tradito dagli Stati Uniti di Trump, che una settimana fa hanno ritirato le truppe dai territori di confine, pur prendendo le distanze dall’attacco deciso da Erdogan, ha ottenutola solidarietà globale della società civile, con iniziative e manifestazioni di protesta che, soprattutto nell’ultimo fine settimana si sono moltiplicate in molti Paesi.
Non ci sono solo i foreign fighters che si sono arruolati nel nome del Califfato, anche la causa di liberazione curda, infatti, è stata sposata direttamente anche da combattenti internazionali tra cui diversi ragazzi italiani che negli ultimi tre anni sono partiti in missione verso la Siria del nord. Alcuni si sono uniti alla difesa del cantone di Afrin, altri si sono schierati in trincea in Rojava con le unità di difesa Ypg delle Syrian Democratic Forces e alle Ypj, organizzazione militare fondata il 4 aprile 2013 come la brigata femminile della milizia di sinistra Unità di Protezione Popolare. Proprio l’account delle Ypj rilancia in continuazione notizie e immagini dal fronte, domenica mattina era la giornalista Solin Mawa a testimoniare la strenua resistenza nella città di Tel Abiad a 60 chilometri da Kobane, «che per ora è ancora nelle mani dei resistence fighters curdi» raccontava in un video diffuso su Twitter.
Anche in Italia ci sono molti ragazzi reduci dal fronte siriano dove sono stati negli ultimi due anni. C’è un gruppo di torinesi, tra cui Davide Grasso e Maria Edgarda Marcucci, partiti nel 2017 per combattere al fianco delle truppe democratiche curde Ypg contro i miliziani Isis. Ma considerati, loro malgrado, quasi alla stregua dei terroristi dalla Procura di Torino. Una volta rientrati in Italia, infatti il pm aveva chiesto per loro la sorveglianza speciale – respinta però dal Tribunale sabaudo – in quanto soggetti “socialmente pericolosi” per essersi addestrati appunto nelle Syrian Democratic Forces.
Sulla sua pagina Facebook, Davide Grasso ospite proprio ieri insieme con il padre di Lorenzo Orsetti e gli altri ex compagni di lotta, della trasmissione Mezzora in più di Lucia Annunziata – ha pubblicato uno dei tanti appelli che sono stati scritti nelle ultime ore di solidarietà al Rojava. Sottoscritto anche da accademici di fama mondiale come il filosofo americano Noam Chomsky, il giurista irlandese John Holloway e la politologa e femminista inglese Carole Pateman. Redatto dalla casa editrice indipendente Elementi Kairos e tradotto in più lingue, si legge nel testo: «Il primo risultato della lotta per l’autonomia del Rojava è stato il contenimento dello Stato Islamico e del suo fondamentalismo. La guerra contro l’autonomia di quel territorio, costruito sulle macerie dello Stato siriano continua sistematicamente da anni in cui attacchi e invasioni territoriali sono stati la normalità, e l’ostilità della Turchia contro chi lotta per un mondo democratico si trasforma nella possibilità concreta di uno sterminio etnico». E in conclusione si accusa l’Unione Europea e gli organismi internazionali di «silenzio complice e assordante», perché «i Diritti Umani vengono tutelati solo quando obbediscono alle leggi del mercato».
Intanto in Italia, come in tutta Europa, si susseguono i presidi di protesta e per il primo novembre è stata lanciata una grande mobilitazione nazionale con un corteo per il centro di Roma.
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