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di LIDIA GIUDICE
«Ok, niente paura.»
«Lala, l’unica spaventata sei tu.»
«Vaffanculo!»
Scoppio a ridere. È da stamattina che alterna panico e imprecazioni, tutte a mio beneficio. Siamo insieme da sempre, ci completiamo solo nelle sciocchezze e litighiamo per un nonnulla, sarebbe stato impossibile andarmene senza di lei.
Lala è spaventata da morire ed è strano perché solitamente sono io l’emotiva. Non che io adesso sia calma, ma cerco di contenermi, lei invece da libero sfogo alla sua ansia. A innervosirla è la sensazione di essere circondata dall’ignoto, la sensazione del non riconoscere le strade e i muri di questa città.
Ha paura di crescere, anche se non lo ammetterebbe mai; gioca a fare la dura, ma ha il cuore di panna, da sempre.
«L’aula è al secondo piano». Mi informa saccente.
«No, è al terzo, Lala»
«Ok, terzo e dal momento che sei così saputella fai strada tu».
Però va avanti lei, giusto per non darmela vinta, mentre scuoto la testa e la seguo. Entriamo in aula e mi si mozza il respiro: tutte le sedie occupate, tutti sembrano conoscersi da una vita e parlano fitto fitto tra di loro.
La nostra è una piccola università sulla costa e l’abbiamo scelta proprio per questo motivo. Avevamo paura di buttarci in un mare troppo profondo, senza tener conto che non tutti i laghi sono tranquilli e ospitali… pessima idea, veramente pessima.
Lala diventa rossa, segno che sta per capitolare. I miei occhi setacciano tutta l’aula e prego che due posti liberi si materializzino sotto i miei occhi.
Mi viene da gridare. Perché tutto mi sembra così strano e sbagliato? Perché sono qui? Perché ho lasciato le mie certezze per qualcosa di così grande per me? E soprattutto, perché una cosa così stupida come una sedia mi sta rendendo isterica?
A un tratto tre posti liberi catturano la mia attenzione.
Guardo Lala raggiante e mi butto a capofitto. Vedo una ragazza avvicinarsi, raggiante e insicura proprio come me. La vedo e la riconosco subito, ha un senso di familiarità che mi rimarrà intrappolato nel cuore.
Capisco subito che saranno sempre tre le sedie che occuperemo e che io e lei diventeremo amiche.
È strano e probabilmente non saprò mai spiegare questa sensazione di affinità nata spontaneamente. Ci apparteniamo come se in una vita passata ci conoscessimo già.
Io mi siedo, lei si siede.
«Ciao, sono Nina».
Ho questo nome che si pronuncia in un sorso. Mi presento con un sorriso e ne ricevo uno enorme in cambio.
«Sara».
Ha un tono di voce roco, da fumatrice incallita, da cantante blues, da donna vissuta, è la tipica bellezza mediterranea, con occhi e capelli scuri come la notte… mi piace. È esattamente il contrario di Lala che ha la voce e il fisico di una bambola di porcellana.
Lala si avvicina e con delicatezza elefantina si lascia cadere sulla sedia accanto alla mia. Tanto è femminile, tanto le piace mostrare la sua grazia mascolina.
«Non siete di qui?», ci chiede Sara.
Molto probabilmente il nostro accento parla per noi.
«No, ci siamo trasferite qui due giorni fa.»
Si fa pensierosa, come se stesse valutando la nostra scelta di trasferirci e storce la bocca come infastidita da qualcosa. La guardo perplessa, lei lo nota e cerca di spiegarsi.
«Strana scelta quella di trasferirvi qui.»
Perché? Vorrei chiederle, ma non ho il tempo per approfondire la questione… entra il professore e cattura la nostra attenzione.
Sta cominciando la mia vita universitaria e nemmeno me ne sono accorta.
Alla pausa tra una lezione e l’altra mi ritrovo in preda allo sconforto più totale. La metà delle cose che ha spiegato il prof non le ho capite, l’altra metà non ho fatto neanche in tempo a scriverle. Lala non ha nemmeno fatto lo sforzo.
«Quell’uomo non ha respirato per 45 minuti!!!», sentenzia con una smorfia di indignazione.
Sono ancora così sconcertata dalla lezione che non mi accorgo del biondino che mi si presenta davanti, sorridendomi. Se per Sara ho sentito immediato affetto, per lui ho sentito… fastidio.
Il mio primo pensiero, guardandolo in faccia, è stato “è un cretino”. Probabilmente ho una faccia troppo esplicita perché lui sembra intuire i miei pensieri e continua a restare fermo davanti a me, sogghignando, mentre Sara lo guarda storto.
«Ragazze, lui è Federico, un mio amico. Fede, loro sono Nina e Lala.»
Va bene, detto così sembriamo il nome di un duo pop svedese, ma c’è bisogno di ridere così tanto? L’impassibilità se ne sta andando.
«Si può sapere cos’è che ti provoca tutta questa ilarità?», mi complimento per il tono maturo che continuo a mantenere.
«La tua faccia.»
Sono convinta di non aver capito bene. Adesso mi alzo e gli spacco quel muso da scimmia che si ritrova. Ok, ok non proprio da scimmia, dato che è tutto fuorché brutto, ma glielo spacco lo stesso. «Senti tu…»
«No no, non mi sono spiegato bene», alza le mani in segno di resa, «rido per la tua espressione…»
E mi guarda allusivamente.
«Solitamente non lascio indifferenti le ragazze, tu invece guardi quasi con disgusto…»
Mentre lo dice sembra non crederci ed è effettivamente allibito. È cretino veramente, penso.
«Togli il quasi»
«Nina!», una Lala fan delle buone maniere, si sta preparando per il cazziatone del secolo, ma qualcosa la fa desistere. La risata di lui ci fa girare entrambe, sì, perché adesso non sogghigna più, adesso se la ride di gusto e sebbene mi costi ammetterlo questo ragazzo ha una risata meravigliosa. È qualcosa di assolutamente puro. Lo odio.
«Ok Federico, sta rientrando il prof, sparisci dalla mia vista.»
Interviene Sara e lui, ciondolando, torna al suo posto.
Si volta solo un attimo per farmi l’occhiolino a cui ribatto prontamente con un dito medio.
Mi chiedo se questo siparietto non sia stata un’allucinazione.
«Sei senza dubbio un tipo non convenzionale.»
Sara mi studia.
«Solitamente Fede ha un effetto lampante sulle ragazze, iniziano tutte a balbettare e cominciano a tirar fuori tette e sorrisi. Tu invece no» e mi guarda con curiosità.
Sono abbastanza seccata da tutto questo inutile scompiglio, mentre stranamente Lala è silenziosa. La guardo e sbianco.
«Ti piace???»
«Non puoi certo negare che sia bello…» parla con un’aria sognante.
Sara scoppia a ridere e mi dà di gomito.
«Vedi, questo lo chiamo effetto Federico.»
Ah.
Arrivata l’ora di pranzo sono così affamata che il block notes acquista un’aria invitante, mi fanno desistere dal buon proposito solo gli appunti che a tentoni sono riuscita a prendere.
Ho conosciuto un po’ Sara, ho scoperto che tra i suoi amici solo pochi sono rimasti qui dopo il liceo, molti se ne sono andati. Anche lei avrebbe voluto partire, cambiare città e studiare psicologia, ma si è accontentata di giurisprudenza.
È simpatica quando vuole, è gentile. Lala la vedo strana, sembra preoccupata, forse le manca casa.
Scendiamo in mensa e ordino una pizza; mentre sono intenta a studiarla attentamente, perché mi pare che di pizza abbia solo la forma, la sedia accanto a me si sposta rumorosamente.
Il cafone si siede.
«Ciao», sorride.
Oddio, ricomincia.
«Allora, chiariamoci una volta per tutte: se hai intenzione di ridere della mia faccia ogni volta che ci vediamo ti avviso che il mio senso dell’humour ha un limite e tu lo stai ampiamente oltrepassando.»
Se ogni volta che ci vediamo la routine è questa meglio chiarire in anticipo.
Lui mi osserva incuriosito ma tace.
Arrivano anche Lala e Sara e cominciamo a parlare della lezione. Il tempo sembra scivolare con tranquillità… potrei abituarmi a tutto questo, mi rilasso sulla sedia e osservo la gente intorno a me. Magari domani, o fra una settimana, conoscerò più gente e questo diventerà una sorta di ritrovo, magari qui sarò felice e avvertirò meno la mancanza di casa.
Guardo Lala, le stringo un ginocchio, lei mi guarda e sorride, ha capito che io ho capito.
Ce la facciamo, sì, ce la facciamo sicuramente.
«Ragazze, scusate, ma io devo andare un attimo al polo di medicina» esordisce Federico.
La nostra università è formata da 5 poli, quello di giurisprudenza è il più distante, ma a 1 km dal nostro si trova il prestigioso – super-lussuoso polo di medicina, praticamente il vanto di questa università.
«Sara vieni con me?»
«Sì, a fra poco ragazze.»
Li guardiamo andare via.
«Caffè?», mi domanda Lala.
Annuisco distrattamente.
«Sai Nina, vorrei fare un salto nel tempo e arrivare già al giorno in cui questa città diventerà un po’ casa nostra, non tanto, giusto un po’ per non sentirmi così… estranea.»
La guardo di sottecchi… immaginare il futuro mi spaventa.
«Quel giorno arriverà, è sicuro.»
Lei sospira e ci avviamo verso il bar. Siamo sole in questa città, ma insieme come sempre.
Tratto da “Ti racconto una storia”
“Santelli Editore”
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