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di MARTINA TAGLIAVIA
“Secondo me i giovani devono partire. Devono andar via, ma per curiosità non per disperazione. E poi devono tornare. I giovani devono andare, un po’ come ho fatto io: sono sempre partito e sempre tornato. E devono andare per capire com’è il resto del mondo, ma anche per un’altra cosa, ancora più importante: per capire se stessi […].” Renzo Piano
Prima o poi per tutti arriva il momento di mettere sulla bilancia le proprie paure e le proprie ambizioni e decidere quale percorso di vita intraprendere. Quando finalmente si consegue il diploma (non per nulla definito “maturità”) si aprono molte opportunità: continuare gli studi o iniziare a lavorare? Rimanere nella propria città o trasferirsi fuori sede? Sicuramente scegliere di “lasciare il nido” per partire ed affrontare la vita da fuori sede è un passo coraggioso: non è certo facile, di punto in bianco, salire su un aereo, salutare la propria famiglia e i propri affetti e dopo qualche ora andare a dormire in un letto che non è il proprio, con la consapevolezza che da quel momento quelle quattro mura (il più delle volte non molto confortevoli) saranno “casa”.
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I primi momenti sono duri; da un giorno all’altro si ha la necessità di fare da soli tutto quello di cui prima magari si occupava qualcun altro al nostro posto: fare la spesa, cucinare, fare le pulizie, saldare le bollette, assicurarsi di chiudere sempre la porta, buttare la spazzatura (fare la raccolta differenziata!), e molto altro ancora! Vi assicuro che all’inizio della mia avventura, per ingenuità e per incoscienza, non pensavo nemmeno a quante potessero essere le insidie di una città del tutto nuova. Orgogliosa siciliana, all’età di 17 anni mi sono trasferita fuori sede a Milano, in un piccolo bilocale, senza coinquilini, e senza conoscere nessuno. Poi ho cominciato a frequentare l’università, e a poco a poco ho conosciuto tantissimi ragazzi e ragazze che come me avevano lasciato casa per andare a vivere da soli.
Insomma, eravamo tutti sulla stessa barca! Ognuno di noi, in fondo, non aspettava altro che questo: compagnia. Ed è stato così che tutti abbiamo ristabilito in questa nuova città, prima tanto ostile, le nostre abitudini: il “solito” cinema, l’amico/a del cuore, la pizzeria che ci fa sentire a casa, la strada più corta per arrivare all’università, il negozio con i prezzi migliori. Credetemi, vi accorgerete quasi subito di appartenere a questo microcosmo molto più di quanto non vi sentivate parte di quello della “vostra” città. Studiare fuori sede vuol dire mettersi alla prova, non solo nelle proprie doti organizzative e “casalinghe”, ma anche nella capacità di relazionarsi con gli altri: si è a contatto con gente proveniente da tutta l’Italia, o addirittura da tutto il mondo.
Si ha a che fare con persone con modi di pensare, fare, vivere e perfino parlare, diversi. E mettersi alla prova implica raggiungere una maggiore maturità. Cosa significa? Crescita. Personale, culturale, formativa. Come avviene? Con la scoperta, di se stessi e degli altri, dei propri limiti e delle proprie attitudini. Ma c’è anche un altro risvolto, altrettanto positivo e formativo: il ritorno a casa. Ogni volta che torno in Sicilia sento dentro di me due forti sentimenti contrastanti.
Da una parte, sento la mancanza di Milano, per tutte le comodità e le opportunità che offre, ma soprattutto per la mia “famiglia” da fuori sede milanese, gli amici che ho scelto per condividere la mia vita lì. Dall’altra parte però, ritrovo la mia vera famiglia, i pranzi della domenica, il panificio sotto casa che mi fa credito quando non ho spiccioli nel portafogli, gli amici di una vita, che sono cresciuti con me e con cui riderò sempre a crepapelle; riscopro quel sole e quel mare a cui mi ero tanto abituata negli anni, e di cui non avevo mai apprezzato appieno bellezza ed unicità; ritorno ad amalgamarmi nel tipico lento scorrere delle giornate al Sud. Solo con l’allontanamento comprendi cosa realmente ti piace e ti manca della tua terra natia.
Chi parte da fuori sede per vivere in un’altra città appartiene a due universi, conosce due modi di descrivere la vita completamente diversi, e questo non può che essere fonte di arricchimento personale. Senza contare che chi si trasferisce lo fa per trovare sistemi educativi, lavorativi, culturali e sociali, migliori di quelli di provenienza. Chi parte e ritorna diventa quindi termine di paragone e input di idee nei confronti di chi resta, in modo da stimolare dapprima una conoscenza, poi una crescita positiva della società. Ma allora, se gli ostacoli iniziali del trasferimento sono, non solo superabili, ma anche pienamente bilanciati da consistenti vantaggi, cosa trattiene i giovani dallo studiare fuori sede? Molti temono che l’allontanamento possa rovinare i rapporti umani con chi resta nella città natale, che siano di amicizia o di amore.
Bene, la mia risposta al riguardo è: in generale, NO. La lontananza tende piuttosto a fortificare i rapporti veri e profondi e ad affievolire, se non addirittura a far scomparire, quelli passeggeri e poco sinceri. Dunque se ancora temete di soffrire il cambiamento, di non resistere alla mancanza di casa e delle vostre abitudini, vi dico questo: negli ultimi anni ho vissuto in quattro città diverse, cambiando quattro case, tre paesi e due continenti. Ho montato armadi, letti e tavolini, aggiustato rubinetti e finestre, acquistato pentole, piatti e posate di scarsa qualità, e tutte le volte ho pensato che mai nessun’altra casa avrebbe potuto rimpiazzare la precedente. Poi ho capito: il cuore mette radici ovunque.
1/ continua
*Associazione culturale Venti
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