Giuseppe Tornatore
1 minuto per la letturaLeggendo “All’èpica, c’era una volta la politica” (edizioni Albatros), un libro di Giuseppe Tornatore sulla storia del PCI in Sicilia, nel flusso di testimonianze, racconti, dialoghi e “fotogrammi” – perché di questo si tratta, di un vero e proprio film – l’epopea dei braccianti e degli sfruttati che occupano i feudi con le bandiere rosse, dibattono la linea politica e imparano la lotta di classe si restituisce agli occhi di oggi in forma di straniante promessa.
Come un seme – tutto quel comunismo – il cui destino è un germoglio postumo. Straniante poi quando si legge di come – tutte quelle coppole, in un orizzonte di prepotenti cappelli – imparavano a conoscere il mondo e così trovare i posti dove i lavoratori non sono degli asserviti ma, al contrario, reggenti. “Ma ‘u sciopiru”, domanda uno, “c’è nell’Unione Sovietica?”. È un altro a dare la risposta: “Quello è uno Stato dei lavoratori: possono i lavoratori fare lo sciopero contro se stessi?”.
E quando c’era la politica comunque tutto era capovolto rispetto a oggi e i compagni lavoratori gridavano “Viva il Socialismo, abbasso l’imperialismo” e al paese, a Leonforte – simile alla Bagheria di Tornatore – i comunisti cantavano, cantavano sempre. Canzoni canzonanti nel ritornello. Il primo rivolto ai padroni: “Pane e cipolla dovete mangiare, disgraziati!”. Il secondo destinato agli Stati Uniti: “Americani, mandate aiuto ché Cangia Scecchi è già perduto”.
E Cangia Scecchi – ossia il “Cambia Asini”, manco a dirlo – era Chiang Kai-shek, il generalissimo presidente del governo nazionalista cinese a Taipei, alleato dell’Occidente, sconfitto dai comunisti di Mao. Insomma, il Zelensky dell’epoca. Anzi, all’èpica. Nel postumo di un germoglio.
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