Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani
5 minuti per la letturaNon sembra esserci accordo su nulla, la maggioranza di governo litiga praticamente su tutto e salta il vertice con la premier Giorgia Meloni
E il vertice di maggioranza alla fine non si fa. Gli invitati a palazzo Chigi, Salvini e Tajani, erano stati allertati sabato per ieri, primo giorno di lavoro utile per Giorgia Meloni dopo dieci giorni in missione prima in Cina – importante – e poi a Parigi dove invece ha finito, anche lei, per finire nella trappola dell’internazionale di Mosca.
Ieri in effetti la premier è tornata a palazzo ma è inutile vedersi visto che non c’è accordo su nulla: nomine Rai, regole d’ingaggio sull’autonomia, la tassa sugli extraprofitti e i tagli per la spending review nell’ottica di trovare risorse per la legge di bilancio. Problemi anche sul Commissario europeo: va bene Raffaele Fitto ma Ursula von der Leyen ha chiesto due nomi, vuole anche una donna e l’accordo sul secondo nome ancora non c’è. Così come siamo in alto mare sul candidato per la Liguria. Non si tratta di bizze, sono nodi importanti.
“Se ne riparla domani, prima o dopo il consiglio dei ministri” dicono fonti di maggioranza ma il tono è scettico. “Non ci sono vertici di maggioranza all’orizzonte” fanno sapere da palazzo Chigi. Rinviando, piuttosto, ad un incontro nelle settimane centrali di agosto, “durante le ferie”. Così magari saranno tutti meno puntuti. Del resto il Parlamento chiude tra mercoledì e giovedì, poi tutti in vacanza e anche il vertice di maggioranza può attendere.
“Sopire e troncare, padre molto reverendo, troncare e sopire” scriveva Manzoni. In una parola: rinviare. Qualcosa che Giorgia Meloni ha imparato benissimo a fare.
Ma certi dossier non possono essere più rinviati: settembre è dietro l’angolo e i nodi più prima che poi vanno sciolti.
I conti pubblici, ad esempio. Il 20 settembre il Mef deve pubblicare cifre non più ballerine: deve rassicurare Bruxelles, la procedura d’infrazione e soddisfare i nuovi vincoli del Patto di stabilità. Per quanto i dati sull’andamento del pil siano più positivi del previsto – viaggiamo verso una crescita pari all’un per cento – l’industria non va bene, dobbiamo dire grazie al turismo che però non assicura nulla di strutturale. E servono almeno 25 miliardi solo per confermare i tagli dello scorso anno a cominciare dal cuneo fiscale e il taglio di un’aliquota Irpef. Giorgia Meloni, spinta dal fedelissimo sottosegretario Fazzolari, vorrebbe fare qualcosa che ha in testa già dall’anno scorso: una tassa sugli extraprofitti di banche e assicurazioni ma anche aziende del comparto energetico.
Basterebbe per recuperare quei 4/5 miliardi che con il pil a 1% (circa venti miliardi) consentirebbe di blindare la legge di bilancio 2025. La notizia è circolata venerdì nella scorsa settimana. Ed è bastata l’ipotesi per far crollare i titoli delle banche in borsa. Qualche retroscena – a cominciare da Dagospia – ha attribuito l’idea a Fazzolari. Lui ha minacciato querela. Da Forza Italia hanno risposto picche.
“Forza Italia è contraria. Siamo contrari ad ogni ipotesi di tassazione, immagino che la famiglia Berlusconi (cioè banca Mediolanum, ndr) pensi la stessa cosa” ha risposto secco Raffaele Nevi, deputato e portavoce degli azzurri. Bisogna come minimo parlarne a voce, ecco. Il vertice di maggioranza doveva servire anche a questo, a trovare altre soluzioni. Perchè un fatto è certo: quei soldi servono e da qualche parte devono saltare fuori. Una giornata come quella di ieri, con le borse asiatiche a picco, quelle europee tutte con il segno meno e l’attesa per i dati Usa, non aiutano.
L’autonomia regionale differenziata, ormai legge dello Stato, è un’ altra spina nel fianco della maggioranza. Forza Italia, che pure l’ha votata in Commissione e in Parlamento, adesso sta facendo di tutto per non farla partire. Sono i governatori a fare resistenza. Occhiuto, che guida la Calabria, è il leader del fonte del no. Qualche giorno fa ha chiesto che nei fatti la legge venga congelata: ci sono una ventina di funzioni che la regioni possono chiedere di gestire già adesso senza aspettare i Lep e le funzioni più importanti. Occhiuto chiede che vengano congelate anche queste. La Lega del nord non ci sta. Zaia ha fatto rispondere il collega della Lombardia, Attilio Fontana, che ha detto basta giochini. Silenzio da Roma e dai leader di maggioranza.
Giorgia Meloni, che non ha mai amato questa riforma, comincia a fare i conti con un referendum (comunque non prima di fine 2025) che potrebbe essere devastante. Per la Lega e per la maggioranza che ha già messo in conto di affrontarne altri due: la consultazione popolare sul premierato e quella sulla divisione delle carriere tra giudici e pm. Anche su questo dossier serve una linea comune visto che Lega e Fratelli d’Italia stanno per iniziare lungo lidi e spiagge la loro campagna informativa sui benefici dell’autonomia. E cosa dicono se nel frattempo Forza Italia rilancia un messaggio contrario? Serve un confronto, non c’è dubbio.
E poi il rinnovo dei vertici Rai. Che può sembrare il dossier meno urgente ma, al contrario, è quello che fa più rumore. Il 23 luglio si è dimessa la presidente Rai Marinella Soldi e ha aperto la partita sulle nomine ai vertici dell’azienda. Ora, per quanto Meloni voglia dimostrare che le nomine non risponderanno alla solita spartizione politica, la spartizione è in atto. Ed è feroce.
Salvini vuole il posto di direttore generale (la sua candidata è una donna) in cambio dell’ok a Paolo Rossi come ad in quota Fdi. Forza Italia mette sul tavolo il nome di Simona Agnes (già nel cda) come presidente. Une perfetta spartizione. L’accordo non c’è. Come non c’è sul nuovo ragioniere dello Stato, la brava e competente Daria Perrotta al posto di Mazzotta. E allora si rinvia. A palazzo Chigi non resta che beatificare il pagamento della quinta rata del Pnrr. “Siamo i primi, siamo i più bravi”. Poi però non riusciamo a spenderli.
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