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Il compromesso di lunedì sera tra Germania e Francia ha facilitato il lavoro dei ministri delle Finanze dei Ventisette che in appena due ore di videoconferenza hanno raggiunto l’accordo sulla nuova governance europea di bilancio. Il Patto di Stabilità e Crescita che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni non sarà quindi ripristinato, come temevano molti Paesi e tra questi l’Italia, dopo essere stato sospeso dal 2020 a causa della pandemia e, in seguito, a causa dell’invasione russa dell’Ucraina.

Restano i capisaldi del vecchio Patto, come gli obiettivi di un deficit e di un debito non superiori rispettivamente al 3% e al 60% del PIL, ma il processo di consolidamento per i Paesi con maggior esposizione viene in un certo senso personalizzato e concepito nell’arco di un periodo di quattro anni, prolungabile fino a sette in cambio di riforme strutturali e investimenti. La Germania e i suoi alleati sono riusciti ad ancorare questi percorsi di rientro a obiettivi numerici vincolanti, in modo da non perdere di vista quello che era il “vecchio” spirito del Patto, costruito sulla disciplina di bilancio.

Apparentemente il più soddisfatto di tutti sembra essere il ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire, artefice del compromesso con i tedeschi che negli ultimi mesi si erano parecchio irrigiditi. Ognuno in questa fase può reclamare la propria dose di successo e anche l’Italia e il ministro Giancarlo Giorgetti portano a casa un più ampio margine di manovra. Alla fine, però, è stata la Germania, con il ministro delle Finanze Christian Lindner, a conseguire un successo di fondo.

Questi i numeri ai quali saranno dovranno essere agganciati i piani di riduzione di ciascun Paese membro. I Paesi con il debito superiore al 90% del Prodotto interno lordo dovranno conseguire ogni anno una riduzione pari all’1 per cento del PIL durante il periodo di aggiustamento; lo sforzo dei Paesi con debito compreso tra il 60 e il 90% sarà invece dimezzato.
Gli Stati membri dovranno creare un cuscinetto fiscale dell’1,5% del Pil al di sotto della soglia obbligatoria di deficit del 3 per cento. Per poter accumulare questo cuscinetto di sicurezza (fiscal buffer) il ritmo annuale di aggiustamento dovrà essere dello 0,4%, che potrebbe essere ridotto allo 0,25% in caso di estensione del periodo di consolidamento. Sarà concessa una deviazione annua, rispetto al percorso concordato sulla spesa strutturale, pari allo 0,3% del PIL, e cumulativa dello 0,6% per l’intero periodo di monitoraggio.

Gli Stati membri potranno estendere questo periodo da quattro a sette anni utilizzando investimenti e riforme contemplati nei rispettivi piani nazionali anti-Covid (PNRR). Quelli con deficit superiore al 3% (al momento quasi una metà dei Paesi UE, Italia e Francia compresi) che dovranno compiere uno sforzo annuo di aggiustamento pari allo 0,5% del PIL, potranno escludere dal calcolo l’aumento del pagamento degli interessi sul servizio del debito nel periodo transitorio 2025-2027.

La proposta di riforma della Commissione europea sul Patto di Stabilità e Crescita, presentata nell’aprile scorso dal vicepresidente Valdis Dombrovskis e dal commissario agli Affari Economici Paolo Gentiloni, aveva cercato di mediare tra le due grandi tendenze contrapposte sul futuro delle regole europee di bilancio. Non era la rivoluzione, anche di pensiero, che ci si poteva attendere dopo gli anni di sospensione causati dalla pandemia e dalla crisi energetica innescata dall’invasione russa dell’Ucraina.

I due shock esogeni che avevano congelato l’ormai vecchio Patto, “concepito negli anni 90”, come era stato riconosciuto da entrambi i commissari, non sono bastati a far cambiare più di tanto idea ai cosiddetti frugali del Nord Europa.

Fin dalla proposta dell’Esecutivo UE era stato introdotto il principio – importante – di un piano di riduzione del debito personalizzato, a seconda delle condizioni macroeconomiche di ciascun Paese membro. Le pressioni di Berlino e dei suoi alleati hanno però via via introdotto durante i negoziati tra Governi alcuni paletti e vincoli che in determinate condizioni non sembrano facilitare, come sarebbe stato lecito aspettarsi dopo tanti anni, crescita e investimenti nonostante l’aggiunta di alcuni elementi di flessibilità.

L’impressione è che questi elementi, relativi allo scomputo dal calcolo del ritmo annuo di riduzione del deficit, come gli interessi sul servizio del debito e il periodo di aggiustamento del triennio 2025-2027, siano, nell’impianto generale del nuovo dispositivo, secondari. Cioè meno importanti rispetto agli obiettivi di consolidamento. Questi ultimi sono ovviamente decisivi e servono a tenere sotto controllo dinamiche che diversamente – il caso Grecia insegna – rischiano di esplodere, ma sono decisamente preponderanti rispetto alla componente dinamica legata agli investimenti, soprattutto nei settori nei quali il fabbisogno dei prossimi anni sarà enorme, come la transizione green e quella digitale.

Pertanto resta in dubbio se il compromesso dei ministri delle Finanze sulla nuova governance di bilancio dei Ventisette sia all’altezza delle ambizioni di crescita e autonomia strategica definiti dalla UE dopo lo shock del Covid e dell’invasione russa dell’Ucraina. La cosa certa è che se flessibilità è stata concessa, rispetto al passato, si tratta di una flessibilità strettamente sorvegliata e che non risponde al fabbisogno di investimento nella transizione green, stimata per molti Paesi tra lo 0,5 e l’1% del PIL per i prossimi anni.


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