Claudio Petruccioli
6 minuti per la lettura“Vogliono chiudere il Pd”. Claudio Petruccioli, esordisce così, col botto, mercoledì scorso, all’evento romano di presentazione del manifesto di un gruppo di ‘laburisti’ in vista del congresso del Partito Democratico (qui il documento).
Ex parlamentare, ex direttore de l’Unità ed ex presidente della Rai, coscienza storica del mondo dem e intellettuale riformista, Petruccioli la sa lunga, ha già fiutato l’aria che tira e, soprattutto, parla fuori dai denti. In evidenza ci sono gli errori della segreteria di Enrico Letta. Che ha cominciato a sbagliare quando si è presentato alle elezioni politiche con una coalizione elettorale e non di programma, quando ha rinunciato a giocare la competizione da candidato premier come lo statuto del Pd prevede per il suo segretario, quando ha cominciato a vergognarsi del ruolo di governo svolto dal Pd e dei risultati ottenuti salvando l’Italia.
Così facendo, Letta non soltanto ha perso le elezioni, cosa che può capitare, ma soprattutto ha commesso un errore politico: ha obliterato la natura del Pd, la sua funzione sistemica e il motivo stesso della sua nascita. Tutto questo con la complicità dei gruppi dirigenti del partito, ai quali Letta, chiamato per la bisogna, deve rispondere. E in questi giorni il dipanarsi del processo cosiddetto “costituente” sembra una diretta conseguenza di quella tattica rinunciataria in quanto semplicemente nasconde il progetto di chiudere definitivamente la vicenda del Pd nato con il Lingotto.
Proprio per questo Petruccioli lancia l’allarme. Un Partito Democratico che rinuncia alla sua vocazione maggioritaria – che non ha nulla a che fare con l’avere i numeri sufficienti per essere maggioranza – ovvero un partito che rinuncia a fare da “perno” del centrosinistra – così come oggi i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni ambiscono a farlo per il centrodestra – non è un problema soltanto per le sorti del proprio campo, ma è un problema per tutto il sistema politico. Che non potrebbe più garantire una democrazia dell’alternanza a causa della radicalizzazione – o, addirittura, della scomparsa – del partito della sinistra. Ecco perché il congresso del Pd si sta trasformando in una sfida esistenziale, dalla quale dipende non soltanto la sorte dei singoli candidati ma il futuro del centrosinistra e del sistema politico italiano.
Al di là dei contenuti del documento, i firmatari del manifesto “Un nuovo inizio, laburista” – tra gli altri, Marco Bentivogli, Filippo Barberis, Stefano Ceccanti, Maurizio Del Conte, Giorgio Gori, Pietro Ichino, Marco Leonardi, Valeria Mancinelli, Enrico Morando, Umberto Ranieri, Tommaso Nanninicini, Carlo Salvemini, Giorgio Tonini, Silvia Zanella – sembrano abbastanza consapevoli della posta in gioco.
“Il Pd si trova nella peggiore delle situazioni tra quelle immaginabili: la segreteria in dimissioni differite e il patto di sindacato che si riarticola sul pezzettino di potere ancora disponibile e in una gestione liquidatoria del Pd”, spiega Marco Bentivogli, che del gruppo ha assunto di fatto la leadership.
“Sarebbe necessaria una presa d’atto e la capacità di fare un passo indietro”, continua, perché “gran parte degli errori commessi dipendono dalla segreteria nazionale e dal segretario”. Per esempio, prosegue, “la scelta degli 87 saggi nominati da Letta che rottamano i 45 del 2007 nominati da Prodi. Se non fosse grave sarebbe ridicolo, una discussione da cabaret tra bolscevichi e menscevichi”.
La critica nei confronti del comitato costituente è radicale e profonda: “è un presepe anni ’80: le donne, i giovani, i sindacati, i cattolici. Una idea che viene dalla parte peggiore del Pci, un distacco degli elementi vitali del Paese, falsamente inclusiva di quello che c’è al di fuori del Pd”, accusa Bentivogli.
Viceversa, per l’ex Cisl, “oggi il messaggio che arriva non è cambiate la Carta dei valori ma cambiate il gruppo dirigente, radicalmente. Invece è quello che non sembra si voglia fare”. Così, ammette Bentivogli, esiste “un serio rischio di deriva francese per il Pd, che si condanni nell’irrilevanza”. Il manifesto contesta pertanto la linea esposta dalla sinistra del partito in queste settimane con l’obiettivo di archiviare come “vecchio” il partito nato al Lingotto, ma per ritornare a qualcosa di ancora più vecchio, ovvero una riproposizione fuori tempo massimo di un’idea caricaturale della sinistra novecentesca. Ecco dunque che, invece di pensare di cambiare nome, simbolo e ispirazione del partito, bisognerebbe semmai rilanciarne il progetto originario.
Sulla distinzione tra la destra e la sinistra del Pd Bentivogli dice parole molto chiare: “sono costruite sul rapporto con il neoliberismo e sul giudizio su Renzi”. Il primo punto, la rivolta contro il neoliberismo, appare davvero una superstizione involontariamente comica. In primo luogo perché, come ripetono diversi intervenuti all’evento, il neoliberismo in Italia, dove lo stato intermedia almeno il 51% del pil nazionale (57% dopo l’aumento della mano pubblica a causa della crisi pandemica) e dove le cinque-sei aziende nazionali più grandi sono a guida pubblica, non si è mai visto. E quel poco di liberismo che c’è stato è frutto proprio dell’azione riformista e del sostegno di tutto il gruppo dirigente del Pd.
Allo stesso tempo, la necessità dell’abiura nei confronti di Matteo Renzi, con l’obiettivo di cancellare ogni traccia del passaggio del bimbaccio di Rignano sull’Arno, appare niente di più che un ossessione ridicola, specie se pretesa da chi, ricorda Bentivogli, “ha sempre condiviso tutto (anche gli eccessi) con Renzi all’interno del Pd e al suo fianco in Consiglio dei Ministri”.
Il paradosso di questa vicenda, spiega Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, è che “l’impostazione più di sinistra e massimalista non piace solo a qualcuno nel Pd”, ma “piace moltissimo a chi sta fuori dal Pd, ai nostri amici Renzi e Calenda. E’ quello che vogliono, che ci mettiamo in quella ridotta lì e che si apra un grande spazio per la loro iniziativa per conquistare i riformisti. Io non gliela voglio dare per vinta”.
Il messaggio è chiaro. Se dal congresso uscirà un partito più radicale, luogocomunista e a vocazione minoritaria – per dirla con Petruccioli, un “partito dell’alternativa di sistema” e non più “un partito dell’alternativa di governo” – vorrà dire che la storia del Pd sarà stata archiviata e che il campo del riformismo sarà abbandonato all’espansione del Terzo Polo.
Di fronte a questo rischio, Giorgio Gori lancia l’allarme di tutti coloro che in questa nuova “cosa” non potrebbero più riconoscersi. “Non ho mai detto, né lo penso, che se vince Elly Schlein uno se ne deve andare dal Pd. Non la conosco, mi fa anche simpatia, penso che abbia buona energia”, chiarisce Gori. “Il problema è se cambia il Pd, se il Pd diventa un’altra cosa, diventa quello che c’era prima del Pd, allora non è più il mio partito. Non faccio scissioni, non ho correnti, sono una persona singola, al massimo riconsegno la tessera se non mi ritrovo più dentro questa roba qua, ma prima di mollare qualcosa provo a fare, da qui alla fine del congresso”. Insomma, la partita della sopravvivenza è aperta. E i laburisti proveranno a giocarsela.
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