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Giorgia Meloni alla Prima della Scala

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Quando Giorgia Meloni vince le elezioni e di lì a poco viene incoronata presidente del Consiglio è più che consapevole di essersi ritrovata a capo di un governo in un contesto socio-economico non favorevole. Non certo a caso il cambio di paradigma è stato radicale, mettere da parte tutte le promesse elettorali, decisive forse nella vittoria finale, e assumere una postura prudente e responsabile. «Dobbiamo rimboccarci le maniche» ripete ai più stretti collaboratori nei minuti successivi alla vittoria del 25 settembre.

Meno di un mese di trattative, e, a  fine ottobre, Meloni varca per la prima volta l’ingresso di Palazzo Chigi da premier in carica, succedendo a Mario Draghi. Tutto questo per dire che il tempo per scrivere una legge finanziaria è certamente poco. Meloni si è affidata alle linee economiche tratteggiate dal precedente esecutivo, cosicché la stesura della legge di bilancio è  per due terzi vincolata dal caro bollette per aiutare famiglie e imprese. E la restante parte? Una piccola fetta al taglio del cuneo fiscale e un piccolo assaggio agli elettori del centrodestra: l’aumento del limite del contante a 5000, l’innalzamento dell’obbligatorietà del Pos a partire da 60 euro, l’innalzamento dell’asticella della flat tax riservata agli autonomi.

Meloni, dunque, aveva messo in conto che i sindacati si sarebbero scatenati. L’incontro di  martedì non è stato fruttuoso, come il precedente. Maurizio Landini, leader della Cgil, è stato netto: «Le risposte arrivate da Meloni sono una conferma delle profonde distanze». Non a caso, lo stesso Landini ha confermato una mobilitazione di piazza nella settimana tra il 12 e il 16 dicembre. Non ci sarà in quella la Cisl che ha apprezzato il lavoro di diplomazia di Palazzo Chigi. Luigi Sbarra ha ammesso che ci sono misure condivisibile, ha apprezzato il confronto e proposto «un percorso di corresponsabilità che guardi oltre la legge di bilancio».

E non è un caso se in quel consesso Meloni ha replicato sottolineando che le proposte dei sindacati sono «sensate» ma «spetta al governo la responsabilità di fare delle scelte e se mettessimo in fila tutte le richieste non ci sarebbero risorse». Tutto questo per dire che Meloni ha più criticità all’interno che all’esterno della coalizione di governo. Per la prima manovra finanziaria la presidente del Consiglio si aspettava una coalizione in modalità moloch.

Ed è forse per tal ragione se sempre  martedì mattina Meloni ha convocato i capigruppo di Camera e Senato delle forze di maggioranza, oltre ai ministri competenti. L’inquilina di Palazzo Chigi ha voluto mettere in chiaro un messaggio: «Dobbiamo avere una linea condivisa. Ho ascoltato tutti ma resto convinta che la filosofia della manovra sia quella giusta, io i capisaldi delle manovra non li tocco».

La preoccupazione di Meloni è l’esercizio provvisorio e il voto finale a ridosso di Capodanno. Urge, accelerare. Tradotto, non voglio scherzi o trappole parlamentari da parte vostra che siete i miei alleati. Va in questa direzione la proposta del ministro Francesco Lollobrigida, concertata con la premier,  di una formare una cabina di regia che abbia il compito di monitorare il percorso della manovra. Una mossa che lascia di sasso gli alleati di Lega e Forza Italia, pronti a piantare una serie di bandierine. «Pesano i sondaggi che vedono di settimana in settimana crescere Fd’I» sussurra un parlamentare di Fi.

Gli azzurri, ad esempio, sostengono da giorni che sia necessario intervenire sul superbonus. L’ipotesi più concreta prevederebbe la proroga del termine di presentazione della Cilas dal 25 novembre al 31 dicembre. Non basta, però. Le truppe del Cavaliere  vogliono una risposta su un’altra questione: come si possono sbloccare i crediti d’imposta?  E ancora invocano l’aumento delle pensioni minime. Il partito di Berlusconi chiede di arrivare almeno a 600 euro.

Dall’altra parte la Lega di Salvini avrebbe voluto una spinta in più sulla tregua fiscale. Le richieste sono tante, come quella del senatore Lotito che avrebbe proposto di spalmare in 60 rate, dunque in cinque anni, i debiti della squadra di calcio. Il ministero dell’Economia ha storto il naso. E dunque non se ne farà nulla. Sul tavolo restano oltre 600 emendamenti ascrivibili alla maggioranza. Obiettivo è scremarli e portarli a 200, 95 Fdi, 55 della Lega, 40 di Forza Italia e 10 di Noi Moderati. Altrimenti l’esecutivo rischia di non farcela per il 31 dicembre, che sarà il giorno del discorso di fine anno di Sergio Mattarella, in cui il capo dello Stato parlerà da presidente rieletto e tirerà le somme sui dodici mesi trascorsi e su quelli che verranno.


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Fabio Grandinetti

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