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Enrico Letta e Giuseppe Conte

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Che poi a ben vedere il problema è sempre lo stesso: il sistema. Inteso come quell’intelaiatura istituzional-politico-sociale sulla quale ciascuno può appendere la sua bandiera: basta che le fondamenta siano solide e riconosciute.

Dalle nostre parti non è così. Non abbiamo una memoria condivisa, né da parte dei vinti né dei vincitori. Right or strong is my country sotto le Alpi è intraducibile, e l’inglese non c’entra. Sulle macerie dei partiti provocate da Tangentopoli da trent’anni si gioca una partita dove il campo da gioco è inondato da fiumi di iniziative anti-sistema, di demagogia, populismo, sovranismo e chi più ne ha più ne metta. I due contenitori politici di centrodestra e centrosinistra sono aggregati tenuti insieme dallo sputo della convenienza. Risultato: altro che solida intelaiatura, il sistema-Italia pencola e chi dovrebbe rimetterlo in sesto, cioè la politica, gioca alla guerra dei bottoni. Intesi come infinito chiacchiericcio inconcludente.

E allora, si potrebbe dire, a che serve un simile pippone e che c’entra con la destra che vince le elezioni e pensa che tutto si risolva così e la sinistra che abbaia alla luna sperando che il grido risvegli coscienze addormentante nel disimpegno? C’entra. C’entra eccome. Perché se Meloni immagina di durare cinque anni surfando su una coalizione che i problemi li agita e pensa di risolverli con qualche manganello legislativo, avrà ben presto un amaro risveglio. A quel punto la questione non sarà se lei a fine legislatura si ricandiderà oppure no, quanto che il centrodestra o destra centro o destradestra risulteranno nient’altro che amenità verbali, scatole vuote per celebrare l’inconcludenza. E se Letta crogiolandosi prevede che il rosolamento al governo consegnerà al Nazareno lo scalpo bruciacchiato dell’avversario mentre Conte allargherà lo studio a Vulturara Appula raccontando come una fiaba moderna la sua avventura palazzo Chigi, si ritroverà con in mano un mucchio di cenere.

La destra ha sbancato le urne ma gli strumenti che ha per cercare di durare sono precari. La sinistra alza la voce ma non trova chi è disposto ad ascoltarla. È lancinante la necessità che il sistema venga riequilibrato attraverso una serie di riforme istituzionali che ne sedimentino la postura.

È un discorso vecchio e in pochi sono disposti ad ascoltarlo, eppure non ha alternative. La Bicamerale proposta in un soffio dell’anima dalla presidente del Consiglio appare tragitto troppo ambizioso. Ma qualcosa si dovrà fare, magari sfruttando le Commissioni parlamentari o ridando spessore alle “bicameraline” esistenti. È innaturale chiedere alla destra con o senza bava alla bocca, di intestarsi battaglie di sinistra: dai diritti alla solidarietà. E altrettanto allucinogeno è pretendere che la sinistra, radicale o riformista, accetti le parole d’ordine sulla sicurezza o sul “non disturbare chi fa” senza sapere esattamente cosa e come.

Perciò destra e sinistra devono sanamente contrapporsi possibilmente rispettandosi, anche per mettere fuori gioco chi si proclama alieno rispetto all’una e all’altra. Il perimetro del confronto sono le riforme, il resto è fumo negli occhi. È il terreno nel quale la politica potrà e dovrà dispiegare tutta la sua capacità, pur se apparentemente di scarso spessore. Ma la partita per rinsaldare il sistema si gioca lì, non certo sui rave party e nemmeno sul gas, dove certi impegni sono inevitabili e certe misure obbligate: dunque bipartisan nella sostanza anche se c’è da giurare che gli schieramenti e i singoli partiti si accapiglieranno a più non posso.

Non a caso Matteo Renzi ha capito per primo e da subito la rilevanza della questione, dichiarandosi disponibile al dialogo perché può giuocare su tutti i fronti ed ha una sua proposta da gettare nella mischia: il premierato, opzione principe della sinistra anti-berlusconiana che fu. Giuseppe Conte fa come le stelle di Cronin e sta a guardare, in attesa di capire da che parte gli conviene buttarsi. Il Pd è ancora annichilito dalla batosta elettorale, non vuole parlare con nessuno preferendo contemplare la sua crisi e ripercorrere le sue liturgie. Ovvio che si tratta di una partita in cui ciascuno ha da guadagnare qualcosa ma anche molto da perdere. La destra, e in primis Giorgia Meloni, giocheranno all’attacco schierando la trasformazione dello Stato in senso presidenziale.

È una riforma che se ne porta appresso tante altre. Una vera e propria rivoluzione. Che potrebbe risultare attraente con qualche riluttanza anche per quei settori politici e intellettuali che l’hanno sempre osteggiata ma che di fronte alla crisi senza fondo della politica e del sostanziale azzeramento del rapporto di fiducia tra cittadini e partiti comprendono che per recuperare terreno occorre uno shock profondo e non qualche imbellettamento.

È la sinistra che deve decidere, e il Pd in particolare. Decidere se preferisce stare dalla parte dello scontro totale aspettando che la maggioranza e il governo Meloni facciano un frontale con i problemi di fondo del Paese, oppure se scegliere di salire sul treno riformista contando sul fatto che gli italiani sono soliti punire chi sta al governo e dunque se il sistema si riassetta possono lucrare una situazione favorevole potendo contare su meccanismi politico-istituzionali rinnovati e rilucenti. È una scelta anche questa più che mai sistemica. Sapendo che c’è in gioco non il singolo destino di questo o quel leader ma la solidità del Paese. Sempre che importi a qualcuno.


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