Silvio Berlusconi nell'aula del Senato
6 minuti per la letturaQUELLO in corso tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni può sembrare, banalmente, il più classico esempio di conflitto generazionale. Un leader anziano ma ancora influente grazie a un manipolo di seggi gioca le sue ultime carte per ostacolare l’ascesa della giovane concorrente che si candida a estrometterlo definitivamente dal suo piedistallo. Ma c’è qualcosa di più.
Silvio Berlusconi è da trent’anni il padre padrone della destra italiana. In virtù di questa primazia, è diventato anche il principale ostacolo allo sviluppo economico e culturale del paese.
Nel 1994 il fondatore di Forza Italia fa il salto in politica con la promessa della ‘rivoluzione liberale’. Nelle sue parole risuona l’eco della rivoluzione condotta dieci anni prima da Margaret Thatcher nel Regno Unito. Durante gli anni 80, il governo conservatore britannico aveva privatizzato la maggior parte delle imprese pubbliche, aveva ridotto drasticamente tasse e spesa pubblica e aveva realizzato un massiccio programma di deregolamentazione del mercato del lavoro e dei servizi finanziari. Thatcher riuscì a resistere per un anno intero allo sciopero dei minatori che si opponevano alla privatizzazione e alla chiusura delle miniere di stato.
E in Italia? Della “pacifica rivoluzione liberale” annunciata da Berlusconi non si hanno notizie. L’obiettivo del capo di Forza Italia è banale: impedire allo Stato di entrare “nella vita privata dei cittadini”. In pratica, dice Berlusconi, lo stato “non ci può chiedere di togliere dai bilanci personali più di un terzo del totale. È un furto se lo stato chiede più della metà. Diventa un’estorsione se chiede più del 60%”. Questa rivoluzione “si può fare solo modificando la struttura dello stato”. La verità è che non se ne fa nulla. Il Cavaliere salva il suo patrimonio personale, ma la pressione fiscale italiana rimane tra le più alte d’Europa.
Né è stata realizzata alcuna riforma delle istituzioni. Nel 1997, la terza Commissione bicamerale per le riforme, frutto del patto tra D’Alema e Berlusconi, prefigura un sistema semipresidenziale ispirato a quello francese con la revisione delle competenze legislative delle due Camere. Dopo aver trovato pure l’accordo sulla riforma elettorale a casa di Gianni Letta (il famigerato ‘patto della crostata’), tutto precipita per il voltafaccia di Silvio Berlusconi. Insomma, dopo decenni di false promesse di liberalismo e di riforme, più che alla lady di ferro Margaret Thatcher, Berlusconi assomiglia, in tutta la sua negativa grandezza, come la Wanna Marchi della politica italiana: un venditore di nulla a milioni di creduloni.
Ma non finisce qui. Le conseguenze delle mancate riforme, sia economiche che istituzionali, appaiono in tutta la loro gravità appena l’Italia deve affrontare le crisi economiche internazionali. Il 4 agosto 2011 lo spread tra BTP-Bund decennali tocca i 389 punti, nell’ambito della crisi finanziaria globale del 2007 e della successiva crisi strutturale italiana del 2011. Così, l’immobilismo conservatore dell’ultimo governo Berlusconi diventa un prezzo troppo alto da pagare per il nostro paese.
Il 5 agosto 2011, al culmine di una drammatica crisi delle borse europee e di un forte ampliamento del differenziale tra i tassi sui titoli italiani e quelli tedeschi, il governatore uscente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet, e quello in pectore, Mario Draghi, scrivono una lettera riservata al governo italiano, indicando una serie di misure da attuarsi al più presto. All’ottemperanza di tali misure viene implicitamente condizionato il sostegno della Bce, attuato attraverso l’acquisto massiccio di titoli di Stato italiani. Sappiamo com’è finita. Il terremoto finanziario globale colpisce l’economia italiana. L’inazione del governo Berlusconi e la perdita di credibilità fa sprofondare l’Italia in un abisso (differenziale dello spread BTp-Bund oltre i 550 punti e titoli pubblici biennali al tasso del 7,25%). Il risparmio degli italiani rischia di andare in malora. Berlusconi diventa un tappo che bisogna far saltare per consentire l’intervento di un governo di emergenza nazionale.
Nonostante il totale fallimento politico e i numerosi guai giudiziari, Silvio Berlusconi si inabissa, ma resiste per dieci anni. E quest’anno ritorna in quell’aula parlamentare dalla quale era stato interdetto. Nel frattempo, molte cose sono cambiate. Tra queste, per esempio, i rapporti di forza tra i diversi partner della coalizione di centrodestra e il rapporto della Russia con l’Europa. Vladimir Putin si rivela per quello che è sempre stato: un despota, refrattario al diritto internazionale e nemico dei valori di libertà dell’Occidente. Così, l’ammirazione e l’amicizia di Berlusconi nei confronti del capo del Cremlino – nate quando il Cav era presidente del consiglio e sospette già da allora – devono essere rilette sotto una nuova luce.
L’atteggiamento del Cavaliere verso lo ‘Zar’ non è – non è mai stato – quello appropriato di un leader liberale e popolare. Popolare, nel senso di membro della famiglia del Partito popolare europeo, erede della tradizione degasperiana. Piuttosto, quella di Berlusconi si rivela oggi sempre meglio come l’attrazione (e, quasi, l’invidia) di un leader populista italiano per un suo omologo più fortunato di lui, in quanto sciolto dai lacci e lacciuoli della democrazia liberale. Le “dolcissime” parole che i due compari si scambiano in questi giorni – con il capo di Forza Italia che denigra la resistenza di Volodymyr Zelensky e ripropone la resa dell’Ucraina alla volontà di potenza del despota di Mosca come unica soluzione alla guerra – ricacciano di nuovo l’Italia indietro di anni. In un colpo solo, Berlusconi spegne i lumi del governo di Mario Draghi, capace di ridare uno standing autorevole al nostro paese. Mentre l’Italia ripiomba nelle tenebre del discredito e del sospetto internazionali.
Dall’altra parte, nonostante la zavorra di una serie di limiti politici e culturali, Giorgia Meloni sta tentando di ricostruire la sua immagine affinché diventi accettabile dai governi dei paesi europei e degli alleati atlantici. La sua posizione sulla guerra in Ucraina è netta: condanna dell’aggressione russa, sostegno al governo di Kiev, solidarietà con le democrazie occidentali, riconferma degli impegni atlantici. Lo sforzo di costruire un esecutivo ispirato alle logiche del buon governo, della competenza e del buon senso vanno apprezzate. L’insieme di questi elementi segnala un tentativo di uscire dal ghetto del populismo di destra più bieco e di intraprendere la strada di un conservatorismo compatibile con il quadro delle alleanze con gli Stati Uniti e con i paesi membri della Unione europea.
Silvio Berlusconi avrebbe l’ennesima occasione per favorire l’evoluzione politico-culturale della destra italiana, accompagnando il processo in corso dentro Fratelli d’Italia, e per non disperdere il patrimonio di credibilità accumulato dal nostro paese durante la breve parentesi del governo uscente. E invece che fa? Sceglie, ancora una volta, di fare il tappo della democrazia italiana, impedendone una positiva evoluzione. Forse, oggi, i “pupazzi prezzolati” svergognati da Mario Draghi hanno finalmente un nome.
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