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Enrico Letta

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LA vicenda della composizione delle liste del Partito Democratico rappresenta una utile cartina di tornasole per capire dove vanno a parare la sua storia e la sua leadership. L’esclusione di una fetta importante di parlamentari riformisti lascia interdetti tutti coloro che avevano sperato che la segreteria di Enrico Letta potesse rappresentare una svolta, abbandonando i polverosi cascami dei vecchi tic della sinistra.

L’ex premier pisano aveva avuto il merito di collocare senza dubbi di sorta il Partito Democratico nel campo dei sostenitori inossidabili del governo di Mario Draghi. Potendo contare su un manipolo di parlamentari tutto sommato ridotto rispetto alle corazzate del M5s e della Lega, Letta è riuscito per mesi a imbrigliare sia Conte che Salvini nel ruolo di stampelle di un esecutivo europeista e riformista. Una operazione che ha qualcosa di miracoloso.

Un po’ meno brillante – a dire il vero – l’operazione della scelta del Presidente della Repubblica. In molti frangenti – specie durante i momenti di scriteriata follia di Conte e Salvini – Letta è sembrato impacciato e claudicante. E tuttavia, quando la vicenda ha preso la piega giusta – con la sollevazione dei parlamentari a favore della riconferma di Sergio Mattarella – Enrico Letta ha giocato la carta dello stratega cinese: comodamente seduto sulla riva del fiume in attesa del cadavere dei suoi avversari. Vincere facendo poco o nulla può essere effettivamente un motivo di ammirazione.

Ma c’è di più. Quando, a febbraio, Putin ha deciso di invadere l’Ucraina, Enrico Letta ha avuto la prontezza e la determinazione di schierare il suo partito sulla stessa posizione atlantista e degasperiana di Mario Draghi. Pertanto, condanna di qualsiasi giustificazione nei confronti del Cremlino e sostegno totale al governo di Kiev, compreso l’invio di aiuti militari. Una posizione tutt’altro che scontata in un partito in cui i residui dell’antiamericanismo sono ancora molto diffusi e dove si sono mescolate le tradizioni cattoliche e laiche del pacifismo antimilitarista duro e puro.

Tutto ciò ha fatto pensare che alla guida del Pd si fosse insediata una leadership dai connotati liberali e riformisti. A dispetto della deriva socialpopulista che aveva visto, dopo l’addio di Matteo Renzi, la vittoria al congresso di Nicola Zingaretti (con il sostegno delle correnti di Andrea Orlando e Dario Franceschini) e la dirigenza dem folgorata dal sogno del “campo largo” con il M5s (con l’avvocato premier elevato a “punto di riferimento fortissimo dei progressisti”). Al momento del suo insediamento dopo le dimissioni di Zingaretti, vittima della caduta del governo giallorosso e in polemica con il suo stesso partito, Letta deve ancora fare i conti con gli equilibri definiti dall’oligarchia del partito e rinnova la prospettiva di intesa con i grillini. All’apoteosi dell’illusione riformista Letta arriva solo molto dopo con il benservito a Giuseppe Conte, colpevole di essere il mandante principale della caduta del governo Draghi (benché sostenuto un minuto dopo dalla collaborazione attiva di Salvini e Berlusconi).

In sostanza, dal punto di vista del segretario del Pd, il rapporto con il M5s diventa irrecuperabile: impossibile insistere in un’alleanza con il populismo pasticcione e irresponsabile che aveva fatto cadere il baluardo dell’Italia in Europa e nel mondo. Aiutato dal gigantesco errore politico dell’avvocato del popolo, Letta ha potuto così far digerire alla maggioranza del suo partito il distacco dal M5s e l’accordo di programma con Carlo Calenda. A questo punto, nel motore riformista della leadership del Pd cominciano a entrare dei granelli di sabbia.

Il primo errore è la conferma della fatwa nei confronti di Matteo Renzi, con l’esclusione di ogni ipotesi di accordo con Italia viva. Una scelta che appare necessaria per tranquillizzare quella ampia porzione dei dem che già avevano dovuto digerire l’alleanza con Azione. Il secondo errore è il plateale allargamento a sinistra con il recupero degli ex scissionisti di Articolo 1 e dei frammenti di sinistra anti-industriale e anti-atlantica (Fratoianni e Bonelli). Una operazione che fa gongolare la sinistra del partito, felice di sentirsi confermata nel rispetto del totem tradizionali dell’unità delle sinistre. Ma fa subito fuggire Calenda, per il quale era rimasto libero l’appiglio di Renzi, fino a quel momento chiuso dalla conventio ad excludendum.

A molti, la rottura del patto da parte di Calenda era apparso – anche giustamente – un po’ esagerato, se non altro per il fatto che il peso di Fratoianni e Bonelli appare obiettivamente modesto. Oggi, però, la vicenda della composizione delle liste del Pd getta una nuova luce sull’intuizione di Calenda. Con la scusa del taglio dei parlamentari – “vigliacca”, l’ha definita Luca Lotti, forse l’epurato più eccellente – la segreteria dem ha letteralmente falcidiato la componente riformista del partito. O piazzando i candidati in contesti dove la vittoria è quasi del tutto improbabile, oppure negando la ricandidatura sic et simpliciter.

Il repulisti tocca anche figure eccellenti. Basti pensare a Vincenzo Amendola, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega agli affari europei. Una figura riconosciuta a livello internazionale, protagonista del Recovery Fund, parte attiva della cavalcata del governo Draghi negli ultimi due anni. Per lui ha cercato di spendersi da Bruxelles perfino Paolo Gentiloni, proprio perché di soggetti del genere c’è bisogno per mantenere ferma la barra europeista del nostro paese.

Oppure si pensi a Stefano Ceccanti, costituzionalista capace di conciliare competenza costituzionale, profondità di visione storica, esperienza di lavoro parlamentare, capacità di mediazione intelligente, elasticità di pensiero e coerenza riformista. Non candidare Ceccanti per fare posto a Scotto e Fratoianni non sarebbe una buona notizia. Non soltanto per il Pd, ma per tutto il Parlamento, vista la stima che l’uomo raccoglie anche dai banchi degli altri gruppi.

Senza contare che la prossima legislatura potrebbe – e dovrebbe – essere l’occasione per mettere le basi di una profonda riforma della Costituzione che aspettiamo da tempo, ma senza fughe verso pasticciate e pericolose derive.

A fare le spese di questo repulisti sono tanti altri – spesso di valore – che qui non c’è lo spazio per citare. Alcuni probabilmente saranno recuperati in extremis, ma il trauma sopravviverà. Tutto ciò, a posteriori, illumina meglio la reazione impulsiva di Calenda. Il quale evidentemente aveva colto prima di tanti altri la deriva identitaria di un partito che non riesce ad accettare l’ipotesi di una evoluzione liberaldemocratica più adatta al tempo in cui viviamo, senza tuttavia aver nemmeno compiuto – benché fuori tempo massimo – la transizione alla socialdemocrazia.

Dove può andare a parare questo Pd, a partire da queste premesse? L’interrogativo è stringente se si pensa alla parabola del partito socialista francese che, per essere rimasto in mezzo al guado, è stato svuotato verso il centro dal movimento di Emmanuel Macron e verso sinistra dal populismo di Jean-Luc Mélenchon.


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