Enrico Letta e Matteo Salvini
5 minuti per la letturaRICORDATE la storiella che ci raccontavano a scuola sulla Sibilla che ti dava un responso così ambiguo che si sarebbe comunque rivelato esatto consolidando così le facoltà divinatorie della Signora? “Ibis redibis non morieris in bello”, ovvero: andrai ritornerai non morirai in guerra. Tutto dipendeva da dove mettevi la virgola: se dopo “redibis non,” morirai, se dopo “redibis” allora non morirai.
Ovviamente dove mettere la virgola toccava all’interprete, la Sibilla ti avrebbe reclamato la risposta giusta dopo che il fatto fosse accaduto. Bene, questa storiella ci è venuta in mente vedendo il dibattito sul peso che avrà il test elettorale del prossimo 12 giugno, perché crediamo che sarà un enigma che tutti interpreteranno come vogliono e non ci sarà nessuna ricaduta “oggettiva”, ma solo un gioco di letture che ciascun contendente metterà in campo per dire di essere in buona salute (politica).
Un po’ lo si è sempre fatto, ma questa volta ci sono tutte le condizioni per farlo alla grande. Partiamo dalla lettura dei risultati del referendum. Nella previsione molto probabile che non si raggiunga il quorum questo verrebbe interpretato come una sconfitta di Salvini che fra i politici ne è stato il principale sostenitore.
Ma si possono vedere le cose diversamente. Se come si prospetta votasse anche solo il 35% degli aventi diritto, ciò significherebbe quasi certamente più o meno un 35% di sì. Vi pare poco che Salvini possa reclamare il merito di essersi messo alla testa del 35% degli elettori?
Difficile per altri reclamare il merito dell’eventuale 65% di oppositori, visto che nessuno ha fatto veramente campagna perché si andasse a votare no e l’astensione non si sa mai se sia una scelta di partecipazione o di fuga dalla politica. Ci pare arduo anche trarre oroscopi dalla tornata di amministrative.
Questa volta non giocherà solo il consueto peso dei fattori locali, ma la confusione che regna in tutte le formazioni politiche incapaci di imporre l’adeguamento delle diverse situazioni territoriali a prospettive decise dai partiti a livello di strategie nazionali.
Anzi, a dire il vero, l’impressione è che i vertici nazionali sfruttino tutte le ambiguità locali per decidersi poi, se ci riusciranno, a proporre un quadro che le contenga. Molti osservatori insistono nel dire che comunque il test delle amministrative costringerà a calibrare programmi e candidature per le urne nazionali previste al momento per la primavera del prossimo anno.
Ammesso che si avessero risultati interpretabili nel loro complesso, per la qual cosa non basterà sommare i voti raccolti da ogni singolo partito e non solo perché c’è il tema delle alleanze, su quella lettura peserà l’incombere di altre scadenze niente affatto secondarie: in autunno ci saranno le regionali in Sicilia, la prossima primavera le regionali in Lazio, Lombardia, Friuli, in autunno prossimo in Trentino-Alto Adige.
Coi tempi che corrono è immaginabile che le manovre già in corso per posizionarsi nell’ottica di quelle scadenze non abbiano ricadute sugli equilibri interni a partiti che vivono ormai di fibrillazioni continue? Sin qui abbiamo ragionato come se tutto si riducesse alla questione delle liste da fare, delle alleanze da costruire, degli appetiti su chi avrà titolo per sedersi a Palazzo Chigi. Per carità, son tutte cose importanti, ma ancora più importante sarà capire in quale contesto si andrà ad operare.
Chi parla con esponenti delle classi dirigenti, specie quelle più convolte sui temi economici, non raccoglie pareri ottimisti sul nostro futuro, non fosse altro perché il nostro posizionamento nel contesto internazionale si va indebolendo: se fino a qualche mese fa molti in quel contesto scommettevano che sarebbe bastato Draghi a risolvere gli impasse italiani, oggi si inizia a far strada il sospetto che neppure l’attuale premier potrà farcela a raddrizzare un barca che fa fatica a rimettersi in asse. I partiti che devono andare alla conta elettorale in numerose occasioni come abbiamo appena ricordato debbono accentuare la reciproca “alternatività”.
Tanto Letta quanto Salvini hanno proclamato che dopo le elezioni sarà finito il tempo delle maggioranze di ampio consenso nazionale. Bisognerebbe chiedere loro se davvero pensano che ci sarà una situazione così chiara, un orizzonte così rassicurante, da consentire il governo di una parte contro un’altra (e già sappiamo che ognuna punta in caso di vittoria a non fare prigionieri, anzi a portarsi via dal campo di gioco il pallone: un vecchio vizio che abbiamo già visto e che continuiamo a vedere). Fra il resto il sistema elettorale vigente è abbastanza scassato da non dare neppure garanzia di produrre una maggioranza stabile, per di più con un numero ridimensionato di parlamentari che saranno anche più difficili di quelli di oggi da gestire da parte dei partiti (ed è tutto dire …). In questo quadro c’è da temere che sulla lettura di quel che uscirà dalle urne del 12 giugno si scateni l’ennesima battaglia giocata nei teatrini mediatici, una prospettiva preoccupante se, come purtroppo è probabile, continuerà la guerra in Ucraina con tutto quello che essa comporta.
Non si dimentichi che non abbiamo ancora messo a terra neppure i provvedimenti necessari per rispondere alle richieste europee sul PNRR: né la riforma della giustizia, né la legge sulla concorrenza, né il cosiddetto decreto aiuti che contiene la norma sul termovalorizzatore di Roma hanno ancor concluso il loro iter legislativo (e dopo ci vorranno i provvedimenti attuativi che, come sanno tutti i tecnici, non sono mai una passeggiata e si negoziano con meno attenzione da parte della pubblica opinione). Insomma il problema non è solo vedere se il 21 giugno nel dibattito parlamentare sulla politica estera Draghi verrà di fatto sfiduciato.
In quel caso un qualche pastrocchio si potrà escogitare, perché giocare con l’ambiguità delle parole non è impossibile. È sul resto che i giochetti diventano sempre meno possibili. (da Mente Politica)
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