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Mario Draghi

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Di fronte ai carri armati di Putin in Ucraina, Mario Draghi ha pronunciato le uniche parole possibili: “Dalla Russia è arrivata una inaccettabile violazione della sovranità di Kiev”. La “ferma condanna” era inevitabile da parte di chi ha salvato l’euro e perciò è diventato uno dei simboli della Ue. Proprio Draghi era in procinto di volare a Mosca per parlare con Putin e molte speranze si erano appuntate su quell’incontro. Che purtroppo, almeno per il momento, non ci sarà. Ma sarebbe una visione parziale quella che concentrasse l’attenzione solo sugli spari nel Donbass.

In realtà il margine di manovra di SuperMario si è ridotto anche a causa delle crescenti difficoltà che il presidente del Consiglio sta incontrando nei rapporti con la maggioranza. Draghi risulta indebolito e anche il dispiegamento delle sue capacità in ambito sovranazionale ne risente: basta vedere gli attacchi del Wall Street Journal che per quanto interessati nella scia degli obiettivi dell’amministrazione statunitense riflettono un cambio di prospettiva.

In buona sostanza è come se Draghi avesse perso il tocco magico e il fluido che dalla sua figura era tracimato verso i suoi interlocutori, si fosse se non esaurito quanto meno abbondantemente affievolito.

La ragione è una sola e molto semplice: estromesso dalla corsa per il Quirinale, Draghi si è visto stampare in fronte un bollino con scadenza primavera 2023. Può restare in sella a palazzo Chigi fino alla scadenza naturale della legislatura, ma con alle spalle un grosso cronometro che scandisce il count down. E ogni secondo che passa lo trafigge, facendogli perdere incisività.

Non è una novità, anzi era tutto molto prevedibile e da molti (compreso chi scrive) previsto. Sbarrato il trasloco sul Colle, era palese che in poco tempo Draghi sarebbe stato scalzato da palazzo Chigi: un teorema di facile comprensione che i suoi avversari hanno cavalcato con disinvoltura. In altri termini si sono comportati un po’ – absit iniuria verbis – come Putin che ha sfruttato le divisioni e le incertezze del fronte a lui contrario. In pratica ad un certo punto il capo del governo si è ritrovato solo, senza uno schieramento alle spalle che lo sostenesse.

Adesso Draghi può sempre contare sul supporto discreto del Quirinale, ma il quadro di riferimento è mutato, e il presidente del Consiglio si ritrova sempre più invischiato nelle beghe tra i partiti della maggioranza di larghe intese, che formalmente gli assicurano intatto appoggio ma contemporaneamente premono sull’acceleratore dei propri interessi elettorali e degli sgambetti tra Commissione ed Aula. Con in più un Parlamento balcanizzato, preso d’infilata da tutti i venti, che neppure i leader di partito riescono a tenere a bada. Col risultato che SuperMario tesse la tela in Consiglio dei ministri e trova compromessi con i titolari dei dicasteri che poi vengono svuotati dagli stessi leader di partito o da pattuglie di parlamentari che in Commissione o in aula rispondono solo a loro stessi e alle loro priorità. Vedi vicenda del contante con Lega e Fdi che si muovono all’unisono oppure lo smarcamento Pd sull’Ilva.

Però, appunto, il contesto è decisivo. Draghi si ritrova stretto tra chi gli chiede “di fare Draghi”, cioè di prendere a schiaffoni i partner riottosi con particolare riferimento alla Lega (ma senza il Carroccio addio grandi intese, con buona pace di chi sogna la maggioranza Ursula); altri che all’opposto lo invitano ad essere più accogliente verso le richieste delle forze politiche e infine chi gli suggerisce di rivolgersi al Paese, magari rifacendosi al Churchill del sudore, lacrime e sangue. Prima della vittoria finale, of course.

La realtà si incarica di essere più complicata. Draghi non è un politico né ha mai reclamato di esserlo o volerlo diventare. Quel suo “un lavoro me lo trovo da solo” non abbisogna di commenti. Per cui adesso si trova di fronte ad un bivio: o imposta con la sua maggioranza una tattica negoziale oppure, all’inverso, sceglie la strada della contrapposizione. Il punto però è che l’una esclude l’altra e ciascuna opzione comporta luci ed ombre. Una sola cosa è evidente: che entrambe non posso coesistere simultaneamente. Invece succede che una volta, di fronte agli sfrangiamenti parlamentari, Draghi scelga l’intemerata e la volta dopo spieghi che il suo “è un governo bellissimo” e tutto va per il meglio, infilandosi nei panni davvero strettissimi di un novello Pangloss.

È evidente che così non funziona, e andando avanti così è impossibile non domandarsi cosa accadrà quando verranno al pettine i nodi della giustizia, del Mes, del fisco, della concorrenza. Per non parlare della legge di Bilancio, l’ultima della legislatura e presumibilmente anche l’ultima di Draghi premier. Come sarà possibile cioè metterla nero su bianco da un lato rispettando le compatibilità dei conti pubblici e dall’altro mettendola al riparo dalla incursioni pre-elettorali dei partiti ansiosi di piazzare le loro famigerate “bandierine”. Su questo sfondo, si capisce che prendono forza le spinte ad accorciare la legislatura e andare al voto in autunno. Si tratterebbe di un salto mortale seguendo la strada del Portogallo: sospendere tutte le clausole ed i vincoli europei e riparlarne ad urne chiuse con rapporti di forza politici rinnovati. Solo che Lisbona non ha il debito pubblico di Roma: ma chi se ne ricorda?


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