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Una seduta del Csm

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Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri all’unanimità il disegno di legge di riforma del Consiglio superiore della magistratura (CSM) e dell’ordinamento giudiziario, con l’impegno dei partiti che compongono la maggioranza di portalo all’approvazione del Parlamento prima della elezione per il rinnovo della composizione del CSM.

È così completato il quadro delle riforme della giustizia, che il Governo ha inteso disegnare, con l’obiettivo di rendere più efficiente l’andamento della giurisdizione, trasparente l’attività del CSM, meglio garantita l’immagine di imparzialità della magistratura, in particolare in rapporto alla attività politica.

Si tratta di riforme parziali che riguardano assetti istituzionali, e che sono ora rimesse all’esame della Camera e del Senato. È da auspicare che il Parlamento sviluppi un dibattito attento ed approfondito, senza le strettoie nei tempi e le strozzature nei contenuti imposte con i numerosi decreti legge e voti di fiducia, pur con l’impegno di dotare il CSM di una nuova legge elettorale per il rinnovo della sua composizione con l’urgenza dettata dalla assai prossima scadenza dell’attuale.

L’esigenza di intervenire con incisive riforme nell’ambito della giustizia è stata puntualmente segnalata dal Presidente Mattarella nel suo discorso di insediamento per il secondo mandato. Il consenso espresso dalla intera Assemblea parlamentare, con ripetuti e intensi applausi, la impegnano ad essere ora coerente con se stessa e tradurre le buone intenzioni in buone leggi.

Le riforme proposte toccano alcuni dei nodi più discussi nel recente dibattito pubblico e istituzionale, ma non riguardano innovazioni che richiederebbero la revisione della costituzione, mediante leggi da approvare con maggioranze qualificate ed a doppia lettura parlamentare. Sarebbe velleitario immaginare che un procedimento così complesso, su temi sui quali è difficile la convergenza, possano essere approvate nel tempo che ci divide dalla fine della legislatura.

Restano quindi fuori campo le ipotesi, pure autorevolmente affacciate e da prendere in seria considerazione, di costituzione di una Alta corte per i giudizi disciplinari da rendere comuni nei confronti di tutti magistrati, ordinari e delle altre magi strature, e per la decisione dei ricorsi contro le delibere del CSM. Egualmente fuori campo il dibattito sempre vivo sulla separazione delle carriere, e non solamente delle funzioni, tra pubblici ministeri e giudici, o sulla obbligatorietà o meno dell’azione penale, che in presenza di una massa non affrontabile di procedimenti, rischia di tradursi in selettività poco trasparente.

Con molta enfasi è stata accolta la proposta di porre fine alle cosiddette “porte girevoli”, vale a dire al ritorno all’esercizio di funzioni giurisdizionali dei magistrati eletti a cariche politiche o, per un tempo determinato, a chi ha partecipato a competizioni elettorali senza essere eletto. Il principio ispiratore è la perdita della immagine di indipendenza e imparzialità, che caratterizza la funzione giurisdizionale, da parte di chi concorre a cariche politiche o ne ha esercitato le funzioni.

Tuttavia ci sarebbe da chiedere se non siano stati proprio i partiti a coltivare le situazioni che ora giustamente contrastano, presentando la candidatura elettorale amministrativa o politica di magistrati di sicura notorietà, spesso pubblici ministeri popolari per le indagini svolte e pubblicizzate, in qualche caso addirittura nella stessa sede nella quale hanno svolto e svolgono le loro funzioni.

Con l’effetto che, anche se hanno esercitato tali funzioni con indipendenza e imparzialità, si rischia di proiettare sull’attività svolta in precedenza una immagine offuscata. La costituzione prevede che tutti i cittadini possono accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Ne segue che una categoria di persone non può essere colpita da incapacità elettorale assoluta. Ma sono ben possibili limitazioni territoriali per la presentazione di candidature, come pure l’esclusione dall’esercizio di funzioni giurisdizionali immediatamente dopo di esse.

La riforma del CSM, e in particolare del sistema elettorale per i due terzi dei suoi componenti eletti dai magistrati, tende a ridurre la presa delle correnti sull’attività consiliare ed a restituire l’autorevolezza, richiesta dalla stessa magistratura, all’organo deputato a garantirne l’autonomia e l’indipendenza. Le modalità di selezione delle candidature e la dimensione dei collegi elettorali sono decisive per secondare o al contrario, contrastare la supremazia degli apparati associativi organizzati.

Il nodo emerso con più evidenza è quello della nomina dei capi degli uffici giudiziari, se frutto di accordi tra correnti nei quali dominino le appartenenze e non i criteri di anzianità, attitudini e merito, previsti dalla legge. In questo ambito un temperamento potrebbe venire anche dall’esercizio di un ruolo più attivo da parte del Ministro della giustizia, pur nel rispetto della autonomia del CSM.

Nella e per la cura dell’organizzazione del servizio giustizia, il Ministro può partecipare con proprie osservazioni alla scelta dei titolari di uffici direttivi, stimolando il CSM a scelte ancorate a dati obiettivi che manifestino laboriosità e sperimentate capacità organizzative e di gestione.

L’idea di distinti CSM per magistrati giudicanti e pubblici ministeri rimane tra le proposte inattuabili senza una riforma costituzionale, con l’avvertenza che un separato organo di autogoverno dei magistrati del pubblico ministero finirebbe per rafforzarne la corporazione.

Sullo sfondo rimane l’etica della funzione ed il costume. L’esito delle riforme, anche delle buone riforme, rimane affidato alla qualità, alla lealtà ed alla professionalità delle persone e delle collettività che danno ad esse sostanza.


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