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Come era inevitabile dopo il pastrocchio delle elezioni quirinalizie si inizia a parlare di ricostruzione del nostro sistema politico. I due pilastri sono già stati individuati dall’andamento di quanto è accaduto: la presidenza della repubblica e i partiti.

Sul primo punto si torna a parlare di presidenzialismo, non certo “completo” sul modello americano, perché a questo non pensa nessuno, ma “semi” più o meno vagamente sul modello francese. Ci si sta rendendo conto che sarebbe necessario avere un’istituzione che possa porsi al di sopra dello scontro contingente fra i raggruppamenti politici e rappresentare al meglio l’unità della nazione. Lo si è potuto certo fare anche con il nostro attuale modello costituzionale, ma adesso in un quadro di tensioni e angosce sociali crescenti si vede che è rischioso puntare solo, come vorrebbe la nostra Carta, su un atto di responsabilità delle forze parlamentari. Questa volta è andata bene alla fine perché il parlamento ha forzato i capi partito a scegliere il congelamento della situazione, ma non si sa come potrebbe andare in futuro.

I problemi tecnici per un riaggiustamento della figura del Presidente della Repubblica sono molti a partire da una necessaria riforma costituzionale che non sarà facile ottenere con la maggioranza che la sottrarrebbe ad un referendum confermativo che di questi tempi è sempre un’avventura. C’è il problema del corpo elettorale che dovrebbe sceglierlo senza rischi di demagogia: elettorato polare diretto o un nuovo ampio collegio di grandi elettori scelti rendendo i parlamentari solo una delle componenti? Poi c’è quello della durata del mandato e dell’ammissibilità o meno della rieleggibilità immediata dell’eletto. Tutte questioni che andrebbero soppesate con attenzione fuori dagli slogan del populismo. È però un nodo che andrà affrontato, soprattutto in connessione con il quadro di indebolimento dei partiti come canali di formazione della classe politica all’altezza del compito e come formatori di opinione pubblica (il che è diverso da quello dell’aizzatore di passioni popolari).

Lo stato di salute del sistema dei partiti è preoccupante. Oscilliamo fra il partito “personale” che si organizza dietro un abile agitatore e il partito come confederazione di fazioni ora in accordo ora in lotta fra loro. Ci sembra piuttosto utopistico immaginare che ci sia un moto spontaneo di autorifondazione del sistema: bisognerebbe credere che gli attuali gruppi dirigenti delle forze politiche italiane sono disponibili a cambiare mestiere. Qualcuno nel loro seno ci sarà anche, ma non c’è dubbio che sarà trattenuto dal farlo per il pensiero dei tanti sodali che col suo ritiro verrebbero travolti (e quelli, ovviamente, premeranno perché non lo faccia).

Ci vorrà quindi un “vincolo esterno” che obblighi il sistema dei partiti ad adeguarsi e questo può essere una buona legge elettorale. Quella che c’è serve a perpetuare il quadro insoddisfacente che abbiamo sperimentato: finte coalizioni che durano giusto il tempo della raccolta del consenso nelle urne, liste determinate da ristretti gruppi dirigenti che lavorano per piazzare candidati che non creino problemi agli equilibri concordati. Soluzioni come le “primarie” sono giochetti per addetti ai lavori che non spostano nulla, salvo qualche eccezione che, come è noto, conferma la regola appena enunciata.

A nostro modesto avviso solo un sistema proporzionale studiato con attenzione, a cominciare da una soglia di sbarramento alta, costringerebbe i partiti a ripensarsi. Chi teme una frammentazione che rilancerebbe una molteplicità di piccoli partiti più o meno “personali” non tiene conto della volatilità attuale dell’elettorato. Quando chi vota si trova davanti un’ampia offerta di candidati tra cui scegliere, inizia a valutare l’attrattività che ciascuno di questi presenta e siccome le “fedeltà di area” sono attualmente in declino può dirigersi verso quello che gli appare più affidabile e competente. Ciò significa che i partiti devono stare molto attenti nella scelta di chi mettere in lista. Il candidato di apparato, quello scelto per compiacere questa o quella fazione, non dovrà più misurarsi solo con l’avversario espressione di un “altro mondo” (ma simile al suo come logiche) come di fatto accade nel maggioritario confuso che abbiamo sperimentato, sicché può solo decidere se accettare quel che gli passa il suo convento o rifugiarsi nell’astensione. Avrà davanti, se i molti partiti in competizione sanno fare il loro mestiere, alternative vere che gli consentono una scelta (lo abbiamo visto nelle recenti comunali a Roma col successo di Calenda, ma anche in altri comuni, grandi e piccoli, con le liste civiche).

Certo il sistema dei partiti attuali cercherà di non doversi piegare a questa dinamica che li porterebbe a scegliere molto fuori dalle loro “nomenklature” aprendosi ad uno “scouting” ad ampio raggio. Non vale solo per i grandi partiti, vale anche per quelli piccoli, che pensano di cavarsela in un nuovo ipotetico sistema proporzionale più costruendo “cartelli” fra di loro che diventando il veicolo di reclutamento di una nuova classe politica.

Stiamo parlando di processi di riforma che, a nostro modesto avviso, finiranno di imporsi da sé per il precipitare delle circostanze, anche se sarebbe bene non affidarsi al naturale crollo di sistemi in crisi: abbiamo visto come è finita agendo in quel modo con la crisi della prima repubblica. Vale per un ripensamento sul ruolo del Presidente della Repubblica e per quello sul ruolo dei partiti. Temi complicati e delicati che sarebbe bene affrontare con le dovute competenze e cautele. (Mente Politica)


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