Il palazzo del Quirinale
3 minuti per la letturaA volte la politica si affida a un ossimoro. Ovvero a una “combinazione di parole contraddittorie o incongruenti”. L’ossimoro più famoso è nell’espressione “convergenze parallele” con cui Aldo Moro cercò di portare la Dc all’incontro, appunto, con il Pci del “compromesso storico” di Enrico Berlinguer. Rispetto ad oggi, altri leader, altri partiti, altre visioni e strategie, verrebbe da dire. Ma, mantenendo il senso delle proporzioni, l’ossimoro proposto dal centrodestra, quello di un “dialogo” da avviare sulla candidatura “di parte”, per il Quirinale, appare più ostativo che risolutivo della obbiettiva difficoltà di questa fase politica.
Se i numeri “di parte” ci fossero già, non ci sarebbe alcun bisogno di attendere, conoscendone la fregola, che Silvio Berlusconi sciolga la “riserva” dell’accettazione di una candidatura divisiva nel corpo sociale prima ancora che tra schieramenti politici. O meglio, se ci fosse già una “parte” politica moderna, matura, politicamente omogenea rispetto al centrodestra che Berlusconi aveva ammassato nel 1994 mischiando l’alleanza con la Lega al Nord e con gli ex missini al Centrosud, sarebbe sortita una operazione politica chiara, anticipatrice della competizione che già si profila all’orizzonte, anziché la temporeggiatrice e confusa riscoperta della leadership perduta. Del resto – come dimenticarlo – già tradita dal leghista Matteo Salvini al momento dell’alleanza con il M5s, nel primo governo giallo-verde di Giuseppe Conte. E non risolta dalla divisione con Fratelli d’Italia rispetto al governo che Mario Draghi, su incarico di Sergio Mattarella, ha dovuto formare al di fuori delle “formule politiche”. Con la conseguente contesa del primato effettivo tra il sovranista Salvini e la nazionalista Giorgia Meloni.
Per quanto Berlusconi possa credere di estraniare la propria candidatura dal diverbio interno alla coalizione, non fosse per il formale legame con il popolarismo europeo che lo distingue dai due concorrenti, non sarà una candidatura al Colle, accettata o ritirata da king maker della partita quirinalizia, a liberare la democrazia dell’alternanza dalle scorie del bipolarismo incompiuto.
Eppure il centrodestra questo sistema vorrebbe conservare. Gli alleati di Berlusconi non hanno fatto mistero di voler cogliere l’occasione per marginalizzare – magari anche grazie ai franchi tiratori – ogni residua possibilità di autonomia del centro della propria coalizione, prima ancora dell’immaginifico centro renziano tra schieramenti alternativi. Prova ne sia che l’offerta di candidatura del centrodestra è già stata pagata da Berlusconi con il ritiro dal terreno della riforma elettorale, che consegna la coalizione così com’è al meccanico esito maggioritario delle elezioni prossime venture. Quale che sia l’inquilino del Quirinale.
Più che la ricandidatura, questo revival di parte rischia di essere la vera negazione dello spirito con cui il Capo dello Stato aveva cercato, sulle ceneri delle due opposte formule – quella gialloverde e quella giallorossa – dei primi tre anni, di fermare l’inseguimento di coalizioni pur che sia. Volente o nolente Berlusconi, nella settimana di tempo che si è dato per sciogliere l’ossimoro dalla parte dell’intesa o della contrapposizione, alla grande intesa di governo rischia di venir meno il respiro necessario a una legislatura costituente della competitività non solo economico-sociale ma anche politico-istituzionale. Se è questa preoccupazione ad aver indotto Enrico Letta a non inseguire il centrodestra nella conta di candidature di parte, pure possibile visti i numeri, allora non basta preservare nemmeno preservare il governo per il dopo, senza misurarsi – come è pur avvenuto grandi prove presidenziali – una prospettiva più “grande” di una formula o di un campo politico. Prima ancora che del conteggio delle telefonate da una “Villa Grande”.
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