Corazzieri al Quirinale
4 minuti per la letturaLa vicenda dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica entra nel vivo: se si vuole evitare il risiko di uno scontro elettorale affidato agli umori e ai giochi tattici di tanti, troppi, politici in cerca del brivido del gioco d’azzardo, è ad una soluzione di sistema che bisogna pensare.
Più si va avanti, più ci sembra difficile che si raggiunga una larga intesa semplicemente a partire dall’individuazione di un “nome”. Non solo dietro, ma prima di, o quantomeno contemporaneamente a quella c’è da individuare un quadro d’insieme, prendendo atto che ciò che è arrivato a maturazione dal 2018 ad oggi è una crisi di sistema: non tiene più la repubblica dei partiti, né di quelli storici, tramontati, né di quelli nuovi che non hanno saputo o potuto riceverne l’eredità. In aggiunta sono cresciute una molteplicità di corporazioni e di gruppi di potere e/o di interesse, ciascuno con i suoi spazi di intervento (e a volte di quasi sovranità): dalla magistratura al sistema della comunicazione mediatica, ai vari centri di potere nazionali e locali.
Per andare avanti, e soprattutto per non perdere quanto si è quasi miracolosamente riconquistato sulla scena europea e internazionale è necessario avviare almeno una risistemazione del nostro quadro complessivo. È comprensibile che questo compito spaventi una classe politica non proprio nelle sue condizioni migliori e preoccupi quelle molteplicità di centri a cui abbiamo fatto cenno che non sono disposti a vedere messe in discussione le posizioni acquisite. Per questo il sogno di rimandare il problema congelando la situazione così come si è sedimentata per circostanze fortuite, quelle che si sono coagulate attorno a Mattarella e a Draghi nei rispettivi ruoli attuali, rimane forte.
Per fortuna il Capo dello Stato in carica continua a cercar di rifiutare questa soluzione per spingere le forze politiche ad affrontare quella ristrutturazione del sistema che si tenta in vario modo da quarant’anni e che viene sempre respinta (ovviamente in genere da quelli che trovano le proposte in campo sempre troppo imperfette rispetto a quelle vaghe che hanno in testa loro). Ci si riuscirà? Forse, se non si pretende di arrivare in un colpo alla soluzione perfetta che peraltro nessuno sa proporre se non come utopie e fughe in avanti di vario genere.
Il nodo attuale è nel superamento di quell’astratto dualismo destra vs. sinistra identificate come il bene contro il male (naturalmente ogni parte vede se stessa come il bene e l’avversario come il male). Il fatto è che i due “campi” non esistono se non come astrazioni o come ammucchiate di componenti diverse che cercano la vittoria unendosi sotto una bandierina di comodo. Giusto o sbagliato che lo si possa considerare, il nostro sistema è un puzzle di componenti che non si riesce a coalizzare in due o tre campi: mancano i leader o i partiti in grado di esercitare questo ruolo. Ma senza una qualche riduzione ad omogeneità delle diverse componenti è molto difficile che si possa arrivare sia ad un vero riconoscimento reciproco, perché di fatto non si sa cosa riconoscere e anche che si possa individuare come un “arbitro” potrebbe regolare un confronto dialettico, essendo improbabile che di qualcosa di simile si possa parlare quando si è davanti ad una zuffa generalizzata in cui le appartenenze e gli interessi sono conflittuali già all’interno di tutti gli schieramenti.
Ci si chiederà come sia possibile avviare un’uscita da questo pasticcio. A noi sembra che al momento l’unica via realistica sia consentire una regolamentazione e stabilizzazione delle forze in campo chiamando gli elettori ad attribuire a ciascuna di esse una riconoscibile quota di consenso. E’ il problema di partire da un accordo su una riforma elettorale che punti a produrre questo risultato, sia consentendo a ciascuna proposta di proporre in proprio la sua offerta politica, sia tagliando fuori quelle componenti che strumentalmente vorrebbero rappresentare posizioni che non hanno un peso politico-sociale sufficiente per mettere in campo “interessi generali” e non posizioni di nicchia. Per dirla in forma esplicita: un sistema elettorale di impianto proporzionale con significativa soglia di sbarramento.
L’accordo per l’elezione di un “arbitro” del sistema politico (scegliamo per comodità questa immagine dell’inquilino del Quirinale) suppone che si definiscano il campo di gioco, le squadre destinate a competervi, le regole accettate da tutti: elementi che al momento non ci sembrano né configurati, né condivisi. Ciò non dipende solo dalla confusa situazione attuale, ma altrettanto dall’incertezza su quale quadro emergerà da un confronto elettorale (fra un poco arriva inevitabilmente), confronto che vedrà una sensibile (e cervellotica) riduzione del numero dei parlamentari, delle regole di competizione ancora da definire (la scarsa adeguatezza di quelle esistenti è piuttosto evidente), un contesto socio-economico squassato dalla esperienza emergenziale della pandemia.
Se in qualche modo non si riesce a definire verso quale contesto si conta di muovere diventa problematico consegnare all’arbitro le sue regole d’ingaggio: perché è questo che dovrebbe succedere in un sistema politico equilibrato, dove si deve poter contare sulle capacità dell’arbitro di tenere tutto entro i confini del bene comune, ma dove la legittimazione che gli consente di imporsi su chi sgarra, poco o tanto che sia, deriva dalla sua possibilità di appellarsi a quelle regole condivise che ha ricevuto all’atto della sua investitura.
da “Mente Politica”
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