Il segretario del Partito democratico Enrico Letta
5 minuti per la letturaUna frasetta che scivola via, inosservata e lievissima. Serena, se vogliamo. Eppure segnala, in questo profluvio di parole e paroloni determinati dai risultati elettorali, un cambio di passo che presto mostrerà la sua rilevanza nella ricomposizione degli schieramenti.
La pronuncia Enrico Letta, democristianamente cauto e attentissimo a ogni dichiarazione, in una delle interviste rilasciate a raffica e corredo del trionfo pidino: «Le elezioni sono nel 2023, la convergenza con Conte è naturale, serve il tempo per fare scelte giuste». Attenzione a quell’accenno al “tempo”, perché è lì che si nasconde la maggiore delle insidie per l’alleanza che dovrebbe diventare, tra un anno, il “nuovo Ulivo”, almeno secondo la vulgata attuale.
A mettere il dito nella piaga, assai meno democristianamente, ci aveva già pensato il serenissimo (ed ex?) arcinemico di Letta, Matteo Renzi, annunciando per certo che al 2023 i Cinquestelle non ci arriveranno neppure: un “tana libera Pd”, secondo l’ex segretario, in particolare rispetto al condizionamento di questi ultimi anni, fondati sulla dicotomia “O Conte o morte”.
La dissoluzione in atto nel Movimento grillino, attesa ma non in percentuali così eclatanti, rimette in moto l’intero quadro della politica e non è sbagliato ritenere che persino il nervosismo che si respira nel centrodestra derivi da quella voragine che s’è aperta. S’è aperta, ma non provocando, al momento, il deciso travaso di voti verso altri lidi, come i flussi elettorali stanno a dimostrare. Esiste una larga percentuale di elettori, uno su due, rimasti a casa: volendo ulteriormente semplificare, un 50 per cento circa di ex votanti delusi sia da Salvini che da Conte, i protagonisti della breve stagione gialloverde.
Stanno decidendo il da farsi, per la parte più sensibile alla politica si può ben dire che restano “in ascolto”: solo chi riuscirà a intercettare questa fascia dall’utilità marginale enorme potrà aspirare al governo del Paese. Il fragile nascente partito di Conte è chiaramente svantaggiato: sia perché non ha struttura, sia perché lì la disillusione è più forte, sia perché le capacità di fare politica dell’ex premier sono ancora tutte da verificare. E la sua popolarità, che Letta dichiara di considerare un’opportunità e non un problema, va sottoposta alla tagliola del tempo: più trascorrono mesi, più l’”effetto-pochette” rischia di svaporare. Ecco perché i giochi, neppure tra Pd e M5S, possono considerarsi conclusi.
Letta difatti prende tempo: chiude a una nuova legge elettorale proporzionale («difficile aprire il dossier in questo Parlamento»), ed esclude l’eventuale anticipo delle elezioni con motivazioni singolari, del tutto diverse dal passato, pur considerandosi ormai “consacrato” dal risultato delle Comunali e avendo “interesse ad andare alle urne”. Non è vero, naturalmente, perché il vero interesse del Pd è provare a ricostruire una “sponda di centro” capace di sottrarre voti alla destra, non altri. Altrimenti non ci sarà gara: neppure con il Salvini di questi tempi e la Meloni che aspira a restare Le Pen a vita.
Se il crollo del M5S è stato lampante e suffragato da cifre concrete (per esempio, a Torino, sono passati da 118mila voti a 28mila), l’avanzata del Pd è tutta “politica” e per niente legata alle cifre reali. Tanto per la questione dell’astensionismo (prima o poi quegli elettori indecisi e sfiduciati torneranno al voto), quanto perché le liste del Pd hanno mantenuto a stento i voti che avevano, in particolare nelle cinque città metropolitane. A Roma, nel 2016, il Pd aveva preso 204mila voti; ora solo 166mila. A Torino 106mila contro 85mila; persino nella Napoli del trionfo di Manfredi, i “dem” sono passati da 43.800 a 40mila. Non si può, da questo, dedurre che non sia stato un successo, come fanno i detrattori di Letta. Ma che il cammino sia tutt’altro che facile però sì. Liberarsi dell’”incantesimo grillino”, stuzzica Renzi, è stata una gran cosa, anche se ora sarà da reinventare tutta la politica delle alleanze. Ieri il segretario ha avuto facile gioco a spronare per i ballottaggi attaccando la Meloni e soprattutto le mattane di Salvini nei confronti del governo di cui fa parte: «Ha dato del bugiardo a Draghi, noi invece lo difendiamo…
Nel governo è importante che ci sia chiarezza e non chiacchiericci estenuanti, fastidiosi, che creano un rumore di fondo insopportabile. Anche perché Salvini non ottiene niente, fa solo casino, questo obbliga a un dispendio inutile di energie». Sulle alleanze future, le Comunali hanno chiarito le idee: «Penso che dobbiamo allargare la coalizione… Nelle prossime ore, nei prossimi giorni, cercherò Calenda, Conte, Renzi, tutti coloro che rappresentano partiti e movimenti con cui possiamo dialogare nelle città che vanno al ballottaggio».
Si partirà dai ballottaggi per arrivare a una ricomposizione che sarà un working progress, fino al 2023, calibrando pesi e misure. Perché al momento, come si sa, la liaison con i grillini è inconciliabile con Renzi e, soprattutto, con Calenda. Non a caso Gualtieri ieri ha già ribadito che non metterebbe mai 5stelle in giunta, al Campidoglio, proprio come aveva chiesto l’astro nascente Calenda, prima lista della Capitale. Immediata la replica di Conte, che dà dell’”arrogante autoreferenziale” all’ex ministro renziano.
È proprio in questo dissidio insanabile che si nasconde la debolezza del cauto cambio di strategia di Letta, costretto a “non abbandonare al loro destino i grillini”, come pure viene sollecitato dai centristi, e neppure può vincolarsi in nodi indistricabili alla loro parabola discendente. Cui Conte cerca di dare un pietoso mascheramento: «È finita la stagione storica in cui si andava orgogliosamente da soli e a tutti i costi», ha dichiarato. Poteva bastare la prima parte della frase, non se ne sarebbe accorto nessuno. Base e gruppi parlamentari sono in fermento, il ritorno alla “casa comune con il Pd” una fantasia di Di Maio di ceti dirigenti in cerca di futuro. Tutti gli altri notano come “il Pd ci abbia fagocitato”, e che con questi numeri ci saranno ben pochi scranni parlamentari da promettere. Si guarda perciò con impazienza al “miracolo” di una lista Di Battista-Casaleggio, la cui “madrina” potrebbe essere Virginia Raggi. E stavolta sarebbe un vero dolore, per Conte e Casalino.
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