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Il discorso sullo stato dell’Unione pronunciato da Ursula von der Leyen davanti al Parlamento di Strasburgo due giorni fa è stato, se concessa una battuta, l’antipasto. Nei prossimi otto mesi saranno servite le portate principali.

E vi è un rischio concreto: quello di restare troppo tempo in attesa e con il fiato sospeso. Al momento sono tre le incognite maggiori se si osserva lo spazio europeo e, se tali incognite contribuiranno a provocare una lunga impasse, il “rimbalzo” in atto nel tentativo di uscire dalla crisi pandemica potrebbe subire una frenata. Al contrario l’attuale congiuntura richiede di fare bene e fare in fretta. Proviamo nel dettaglio ad osservare le tre incognite.

La prima naturalmente riguarda Berlino e il dopo Merkel. E qui occorre ricordare che l’incognita è doppia e solo in parte si scioglierà alla chiusura delle urne domenica 26 settembre. Sicuramente avremo il partito di maggioranza relativa e, se i sondaggi dovessero essere confermati, la socialdemocrazia dovrebbe essere il primo partito e l’Unione Cristiano democratica subire un traumatico arretramento. Un risultato di questo genere difficilmente porterà alla nascita di una nuova Grande Coalizione e, se si dovesse andare nella direzione di un governo sostenuto da tre forze politiche, i tempi per il negoziato e l’elaborazione del contratto di coalizione potrebbero davvero dilatarsi. Il rischio all’orizzonte è quello di una lunga fase di stallo a Berlino, con conseguenze immediate nei processi decisionali dell’Ue.

La seconda grande incognita si sta per profilare nel contesto che dallo scorso febbraio si è tramutato nel vero centro propulsore della rinascita europea post-pandemica, cioè il nostro Paese. Occorre ribadire questo punto: l’Italia di Mario Draghi sta vivendo una lunga “luna di miele”. Agli occhi delle principali cancellerie europee e di Bruxelles, Roma appare come un partner affidabile e virtuoso, come poche volte è accaduto nella storia dell’Italia repubblicana, un modello da imitare e non un osservato speciale, se non un elemento patologico da isolare. Tra poche settimane tutto ciò potrebbe entrare in una fase di tensione ed impasse quando ufficialmente si aprirà la “corsa al Quirinale”.

A Bruxelles non nascondono una netta preferenza per l’opzione riconferma di Mattarella alla presidenza della Repubblica e timone tra le mani di Draghi a Palazzo Chigi sino al termine della legislatura. La classe politica in linea di massima dovrebbe avere una preferenza simile, completando così in maniera indenne la legislatura. L’idea di mandare Draghi al Quirinale, provocando una crisi politica interna e quasi sicuramente dovendo a quel punto ricorrere ad elezioni anticipate, sembra l’opzione preferita da Lega e Fratelli d’Italia che sono avanti nei sondaggi e che vivono l’attuale contingenza dominata da Draghi come una diminutio del loro possibile attivismo.

Senza valutare le legittime prese di posizione strumentali tipiche della contesa politica, dovrebbe forse essere l’oggettività del sistema istituzionale italiano a spingere per la conferma di Draghi a Palazzo Chigi. Seppur con un sempre più accentuato correttivo presidenziale, inscritto nella Carta costituzionale e particolarmente evidente nell’ultimo trentennio, il sistema italiano resta parlamentare e ai Consigli europei siede il presidente del Consiglio. La garanzia e la vera propria leadership di Mario Draghi potranno essere esercitate nelle modalità attuali soltanto sino a quando egli siederà a Palazzo Chigi. Si possono avere opinioni su quasi tutto, ma su questo punto c’è poco da discutere.

La terza ed ultima incognita è parigina e anche in questo caso possiamo descriverla con una doppia dimensione. Da un lato non è per nulla scontata la rielezione di Emmanuel Macron. O meglio lo sarà quasi sicuramente se il ballottaggio dovesse essere una ripetizione di quello del 2017. Il livello di “presidenziabilità” di Marine Le Pen rimane abbastanza basso e per Macron la leader del Rassemblement national resta il “miglior nemico” possibile. Altro discorso si aprirebbe nel caso di un candidato della destra moderata presente al ballottaggio contro Macron. In questo caso il ballottaggio per il presidente uscente potrebbe essere letale. Vi è però un’altra dimensione di rischio, legata alla possibilità che il 2022 si apra con una lunga campagna, litigiosa e rancorosa che, in particolare sui temi del processo di integrazione, finisca per rincorrere le posizioni di Marine Le Pen e tutto ciò in pieno semestre di presidenza francese dell’Ue (il primo del 2022 appunto).

Se il bel tempo si vede dal mattino, la situazione rischia di sfuggire di mano. Di recente Michel Barnier, ex ministro, ex commissario europeo nonché capo negoziatore Ue per Brexit e potenziale candidato per la destra gollista, con alcune dichiarazioni ha creato imbarazzi e preoccupazioni a Parigi quanto a Bruxelles. Parlando della necessità di rimettere in discussione il primato della Corte di Giustizia europea e la sua primazia sulle giurisprudenze nazionali, proponendo una moratoria delle procedure per concedere l’asilo politico e infine annunciando in caso di elezione alla presidenza un referendum sui temi dell’immigrazione, Barnier ha delineato plasticamente cosa significhi rincorrere le estreme sui loro temi classici.

Insomma, almeno una parte dell’incognita berlinese si scioglierà già domenica prossima, mentre per quella francese i tempi sono medio-lunghi. E l’Italia? Mario Draghi potrebbe ufficializzare la sua indisponibilità per il Quirinale? Chi è minimamente esperto di vicende quirinalizie sa benissimo che per quello scranno non si fanno campagne, né si presentano candidature. Peraltro, sarebbe irrituale e tendenzialmente controproducente una presa di posizione di Draghi rispetto al suo desiderio di permanenza a Palazzo Chigi sino alla primavera del 2023, non fosse altro perché la grande coalizione che lo sostiene, già offuscata e resa inutile dal suo attivismo e dalla sua leadership, mantiene solo un unico ma non scontato potere: quello di garantire la maggioranza parlamentare all’esecutivo da lui guidato.

Anche lo stesso Draghi ha però un’importante arma di ricatto seppure solo potenziale: comunicare al Paese l’impossibilità di proseguire con il suo lavoro di ricostruzione e risanamento, all’ombra del Next Generation Eu e delle sue munifiche casse. Salvini, Melloni e tutti coloro che premono per il voto anticipato dovrebbero poi spiegare la loro scelta ai potenziali elettori in una campagna elettorale che diventerebbe per loro piuttosto complicata. Lo stallo e il gioco dei veti incrociati, per una volta e se perpetrato sino alla primavera del 2023, potrebbero non essere cattive notizie.

Gli elettori tedeschi e quelli francesi determineranno con le loro scelte non solo il futuro dei rispettivi Paesi ma anche i sempre più determinanti equilibri europei. Nel nostro Paese sarà il Parlamento eletto nel 2018 ad avere in mano il destino di una delle legislature più decisive della storia dell’Italia repubblicana, per il nostro Paese almeno quanto per l’Europa. Per una sorta di doppio paradosso l’Italia non facendo nulla, cioè lasciando Draghi a Palazzo Chigi e Mattarella al Quirinale, potrebbe fare il suo bene quanto quello dell’Unione europea.


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