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Tre anni fa lo Stato ha tradito la fiducia che i cittadini ripongono nelle istituzioni, ha detto il premier Draghi a Genova. Si commemorava il crollo del ponte Morandi, 43 vittime di un evento d’inaudita drammaticità e, almeno in Italia, senza precedenti.
Non crediamo sarebbe stato sacrilego nei confronti di quella tragedia se il premier avesse aggiunto un: “ancora una volta”. Non per concedere qualcosa al vittimismo gratuito di cui sono in molti a peccare, nel nostro Paese, e soprattutto i partiti. Cui va invece attribuito proprio quella mancanza di rispetto istituzionale che si traduce in scelte scellerate, politiche dissennate, l’incuria generalizzata di cui i cittadini sono vittima. Salvo poi finire, nel segreto dell’urna, per “risparmiare” ai loro carnefici la più grande punizione che si possa loro infliggere: ovvero cancellarli con un voto contrario.
Il discorso porta lontano, certo, perché il più delle volte individuare le responsabilità in maniera inequivocabile è compito arduo, quasi impossibile. Dalla fine della Prima Repubblica in avanti, una narrazione semplificata ci ha raccontato che fosse colpa del sistema “bloccato”, mentre il sano “bipolarismo” all’anglosassone ci avrebbe salvato.
Ma oggi, dopo ventisette anni di contrapposizioni talora persino violente, di governi che si sono ritenuti agli antipodi pur reiterando i medesimi errori, di politiche strombazzate come alternative soltanto a uso dei gonzi che ci credevano, riscoprire un dibattito imperniato ancora su tale visione fasulla puzza tanto di ipocrisia.
I partiti si stanno riposizionando: tutti, ciascuno seguendo com’è giusto le convenienze del momento (quasi nessuno visioni più generali che intercettino il bene del Paese). Lo storico Ernesto Galli Della Loggia, dalle colonne del Corsera, ha lanciato qualche giorno fa il sassolino nelle stagnanti acque del centrodestra.
Anche perché la provocazione aveva un destinatario e voleva farlo uscire allo scoperto in previsione di un futuro, neanche tanto lontano, nel quale sia per le elezioni del nuovo Presidente della Repubblica, sia per le successive elezioni (che siano nel ’22 o nel ’23 poco cambia) Forza Italia rischia di fare il convitato di pietra pur potendo diventare, al contrario, perno essenziale di ogni futura aggregazione.
Come finalmente si stanno accorgendo in molti – tranne forse i due leader di quella alleanza “giallorossa” che fu e che vorrebbe diventare organica – oggi non solo nel Paese, ma anche in Parlamento, la maggioranza sta cambiando e potrebbe persino avere un chiaro segno di centrodestra.
A patto però che ne accettino fino in fondo le conseguenze i tre leader dei partiti che a quello schieramento si richiamano (e hanno confermato di sentirsi legati da poco). Il centrodestra detterà il gioco alle prossime elezioni quirinalizie e non solo. Se la Lega o i Fratelli d’Italia diventassero partito di maggioranza relativa alle elezioni, potrebbe scaturirne un’investitura a Palazzo Chigi per Salvini o per la Meloni.
Ma non certo per portare l’Italia nell’orbita di Orbàn, sviluppare politiche antieuropee, o tollerare gli strafalcioni di Durigon o di un qualsiasi suprematista o nostalgico fascista. Insomma, i segnali che emergono da questo torrido agosto di miasmi non mostrano partiti in buona salute, soprattutto mentale, oseremmo dire.
E per quanto riguarda lo schieramento accreditato al 48 per cento circa nei sondaggi, non sembra ci si possa sentire rassicurati. Prima dell’affare Durigon, si era arrivati a paragonare la Meloni a Hitler; subito dopo è stato scovato uno sconosciuto ex consigliere leghista che immaginava di intitolare un piazzale al Fuhrer; ieri è stato fustigato il pediatra candidato a Milano per il centrodestra, per aver dichiarato che lui non distingue i malati in fascisti o antifascisti, ma solo in base al sesso e al fatto di essere “persone perbene”.
Apriti cielo: per la capogruppo dei deputati del Pd, Debora Serracchiani, si è trattato di “parole che fanno rabbrividire” (saremmo pure contenti per lei, viste le temperature). Come fu per l’avvento del primo centrodestra di Berlusconi si rischia la caccia al “fascista” di governo, non avendo di meglio per poter screditare l’avversario. Chi ha buona memoria, ricorderà le aggressioni a Berlusconi “Cavaliere nero”, prima di diventare il padre di ogni corruzione (meglio se mafiosa). Quindi al “revisionista” Fini e a tanti altri mitissimi personaggi, tra i quali Pinuccio Tatarella, che pure era riconosciuto come il “dc del Msi” nonché “ministro dell’armonia”.
Un ministro belga si rifiutò persino di stringergli la mano, condizionato dalle polemiche che imperversavano in Italia. Ecco: se è questo il “bipolarismo” che ancora ieri Berlusconi difendeva in risposta a Galli Della Loggia, rivendicando il merito di averlo “introdotto” nel Paese, ne faremmo volentieri a meno. Pur comprendendo il senso rassicurante per gli alleati, che vedono come la peste accordi con la miriade di soggetti “centristi” che pullulano in Parlamento e fuori, consiglieremmo al vecchio leader di non farsi impressionare né dai sondaggi, né dal misero 7 per cento di Forza Italia (opera dei luogotenenti scelti da lui, non di altro): sia per eleggere un degno successore a Mattarella, sia per governare il Paese dopo la lezione impressa dal ”metodo Draghi”.
Guardare al centro, rispolverare la vecchia bandiera degli esordi: dire che “le centre c’est moi” sarà pure una frase da “ganassa”, ma non per questo bisogna cadere vittima di una “sindrome di Stoccolma”. Farsi cerniera tra una Lega “giorgettizzata”, una Meloni “rasserenata” e l’area che va da Calenda a Renzi non sarebbe mica “inciucio”: se è stato il “primo a chiedere il governo Draghi”, il Cav non tema di essere il primo a gestire le manovre che lo traslochino al Quirinale e fondatore di una maggioranza che ne completi l’opera. Alla fin della fiera, il miglior servizio che si possa rendere al Paese.
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