Sergio Mattarella e Mario Draghi
5 minuti per la letturaDraghi rientra dagli impegni internazionali del G7 e del vertice Nato e ritorna da vincitore: non perché abbia portato a casa qualche prebenda per il nostro paese, ma per il riconoscimento di ruolo che ha avuto. In parallelo cresce il consenso di cui gode presso l’opinione pubblica e anche questo è un dato da non trascurare. Quanto tutto ciò modifica il nostro quadro politico? Ecco una domanda a cui non è semplice dare risposta.
Da un certo punto di vista si potrebbe convenire che Draghi si è continuamente rafforzato, ma l’ha fatto per le sue azioni, non per il sostegno che gli ha dato l’ampia coalizione che dovrebbe sorreggerlo. Certamente nessuno al suo interno osa dire che il premier non sia adeguato al compito. Persino Conte, che non può discostarsi troppo dai capi del suo fan club che Draghi non lo vedono di buon occhio, si barcamena dicendo che M5S è con Draghi anche se ha qualche punto di dissenso. Lega, PD e FI invece fanno a gara a cercare di annettersi il premier, ciascuno sostenendo che “solo lui” è la vera spalla dell’ex presidente della BCE, gli altri fanno finta di esserlo, ma mentono sapendo di mentire.
Ovviamente è il solito gioco delle narrazioni politiche in cui ognuno tira l’acqua al suo mulino. Se invece si va a vedere cosa propongono i singoli partiti è facile constatare come ciascuno sventoli le sue bandierine senza alcun collegamento e/o confronto con quanto pianifica il governo. La spiegazione di questo modo di procedere è semplice: tutti sanno che la gente dà interamente a Draghi quel che è di Draghi e dunque a loro viene, ben che vada, un po’ di luce riflessa. Allora meglio caratterizzarsi con proposte per il “dopo”, quando cesserà quest’obbligo di stare tutti insieme a reggere il moccolo a questo governo e si potrà testare chi sarà a succedergli.
Ciò che in questo momento è più che incerto è quando collocare questo “dopo”. Se non andiamo errati ora c’è una generale tendenza a posticipare quella scadenza. I partiti sono incerti sul loro futuro e pensano di aver bisogno di tempo per consolidare i cambiamenti. La voglia di dare “spallate” sembra essersi smorzata, perché si sta realizzando che la gente non vuole caos competitivo che metterebbe in serio pericolo le possibilità di ripresa. Meglio attendere, vedere quel che succede con i soliti “test” relativamente circoscritti (tipo le prossime amministrative), affinare le diverse narrazioni che, mutati i contesti rispetto anche solo ad un paio d’anni fa, devono essere adattate, ma senza che il pubblico possa sospettare un “tradimento” dei vecchi parametri di mobilitazione.
Solo che si tratta di un’operazione non semplice da condurre in porto. Draghi è ingombrante, è un tecnico che come tale delegittima i tradizionali modi di agire delle diverse partitocrazie. Si era pensato di toglierselo di mezzo senza danno promuovendolo al vertice dello Stato, ma si è constatato presto che sarebbe un’operazione con molti rischi e pochi guadagni. Non c’è solo il problema di piantar lì la realizzazione appena iniziata del PNRR. Più di questo pesa il fatto che un altro Draghi sottomano non ce l’ha nessuno e il feed back di una sostituzione dell’attuale premier senza una personalità di eguale statura e carisma non sarebbe favorevole. Il contraccolpo non più solo in Europa, ma ora anche negli USA sarebbe pesante e comprometterebbe tutto il lavoro che resterà da fare, inclusa la attivazione operativa dei progetti e delle riforme che si metteranno in campo.
Per queste ragioni vediamo prendere quota quella che a noi non sembra una sana abitudine: convincere Mattarella come si è fatto già con Napolitano, che deve rimanere al timone ancora un paio d’anni se non vuol caricarsi della responsabilità di un PNRR con una guida debole a cui i partner euro-americani non potrebbero portare il supporto che, del tutto nel loro interesse, sono disposti a portare a Draghi. La soluzione è semplice, ma non sappiamo quanto la si possa considerare razionale. Non è certo che basterebbe questo per garantire a Draghi quella navigazione parlamentare in cui tutti sono consapevoli dei rischi che si attraversano e di conseguenza si astengono da operazioni corsare, ma soprattutto non si vede in base a cosa ci si dovrebbe aspettare che tempo quattro o cinque anni si troverebbe un quadro politico stabilizzato intorno a criteri di realismo e ragionevolezza.
Non siamo insomma alla vigilia di nessuna “rivoluzione gentile”, ma piuttosto vediamo un guado fra la seconda e la terza repubblica molto affollato di soggetti che cercano di raggiungere l’altra sponda sgambettando il più possibile i loro compagni di traversata. Draghi ha la statura e lo status (le due cose non necessariamente coincidono) per andare avanti da solo imponendo la sua agenda, ma poi verrà, anzi ci sembra di poter dire che sta già venendo, che ci si debba confrontare con i lacci e lacciuoli che da decenni impediscono all’Italia di crescere e svilupparsi.
A quel punto tanto lui quanto i partiti dovranno porsi il problema di trovare dei punti di caduta su cui concordare. Quel che ci sembra stia succedendo sulla determinante riforma della giustizia non ci fa ben sperare, ma si tratta di dinamiche che possono presentarsi (e forse già è così) per ogni rilevante riforma, per ogni investimento destinato a giocare un ruolo di moltiplicatore.
Il tempo divenuto ormai decisamente pre-elettorale, sia sul versante delle amministrative che su quello quirinalizio, costringerà molti attori a scoprire le proprie carte e su quelle si inizierà a giocare un vero e proprio secondo tempo dell’esperimento voluto da Mattarella e da Draghi.
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