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Il premier Mario Draghi

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La pasticciata uscita di Enrico Letta a proposito della tassazione delle successioni, per quanto riguarda la controversia con Draghi si è risolta in un mattino, per il resto è benzina sulla sgangherata campagna elettorale permanente che ormai coinvolge i partiti. Si potrebbe declassare il tutto a teatrino della politica, ma si può anche provare a ragionare sull’episodio per rendersi conto del livello a cui siamo arrivati.

Partiamo dall’uscita di Letta, perché di uscita e non di più si tratta. In sé non ha proposto nulla di sconvolgente, ma lo ha fatto nel più maldestro e arruffato dei modi che si possa immaginare.

Che chi ottiene senza particolare fatica una ricchezza cospicua debba in qualche modo concorrere a contrastare gli squilibri sociali dovrebbe essere, se non vogliamo parlare di etica, un interesse alla salvaguardia della propria posizione, perché le società preda di squilibri crescenti esplodono e in questo alla fine travolgono tutto.

Però il principio non va annunciato come un dogma da ridurre a slogan, ma va articolato. È necessario spiegare cosa si intende per ricchezza notevole che viene trasmessa senza merito, mentre in questo caso si è oscillato come punto di partenza fra un milione e cinque milioni: non esattamente la stessa cosa. Sarebbe stato bene distinguere fra beni che alla fine sono beni d’uso e altri tipi di beni: se una famiglia ha tre appartamenti, magari due pervenuti per eredità in una posizione urbana favorevole e ne lascia uno ciascuno a tre figli, può benissimo arrivare al valore di un milione di euro, senza peraltro che nessuno dei tre riceva qualcosa che può essere definito propriamente “una ricchezza”.

Si sa benissimo che ci si può sbizzarrire in queste valutazioni, tipo: il valore di un immobile è quello catastale o quello commerciale? (tutti sanno che con queste distinzioni possono esserci squilibri enormi). Si considera il valore complessivo di un asse ereditario o quello della quota che arriva a ciascun erede?

Si potrebbe continuare e si vedrebbe che si sta parlando di argomenti che si sfaldano in mano se vengono analizzati per bene, con la probabilità che alla fine di “redistribuzione” se ne faccia pochina e certo non sufficiente a dare delle chance reali ai giovani meno fortunati (che sono in numero molto maggiore di quelli fortunatissimi a cui si riuscirebbe a togliere qualche briciola).

Considerata sotto quest’ottica l’uscita di Letta è più o meno una ingenua proposta giusto per dire “qualcosa di sinistra”, ma solo secondo i canoni delle narrazioni alla buona, non certo delle analisi scientifiche. Da uno che contemporaneamente riconosceva a Renzi il merito di averlo costretto a buttarsi in un periodo sabbatico di studio e riflessione ci si poteva aspettare qualcosa di più.

Lo stesso si può dire per le scomposte reazioni di tutto il centrodestra. Passi la Meloni, passi Salvini, ma almeno da Forza Italia ci si poteva attendere che non si buttasse nel più sciocco anticomunismo stile anni Cinquanta del secolo scorso. Una destra anche solo un minimo raziocinante poteva facilmente mettere in difficoltà un Letta che lanciava slogan come un Cinque Stelle qualunque, facendo notare il pressapochismo della proposta e la necessità di analizzare invece il problema della redistribuzione della ricchezza e del contrasto alle differenze in maniera appropriata. E’ una destra da teatrino di varietà quella che non sa dire altro che “giù le mani dai nostri soldi”, “che orrore le tasse che vanno abolite” e roba simile. Se vuole andare al governo dovrà pur dimostrare che è consapevole del fatto che un sistema sociale va mantenuto in un equilibrio accettabile, che la solidarietà trasversale è un principio di ordine oltre che di giustizia.

Sappiamo bene che purtroppo queste scivolate tanto a sinistra come a destra dipendono dalla contingenza in cui viviamo, che è quella di una società che ha perso ogni fiducia nella costruzione del suo futuro. Purtroppo in un contesto dove vige ormai l’assioma del “ciascuno per sé e Dio per tutti”  (e Dio sarebbe lo stato che deve distribuire sostegni e sussidi creandoli dal nulla) è facile raccattare consensi urlando o che tutti resteranno coi propri privilegi che non si toccano o che le diseguaglianze verranno colmate facilmente con opportuni assalti ad una qualche diligenza che passa.

Draghi sta cercando con grande pazienza di riportare sulla terra le fantasie tanto di quelli che hanno in mente vecchie ricette ridistributive quanto di quelli che favoleggiano su “tasse piatte” impossibili. Si sottovaluta la sua saggezza quando ripete, questa come altre volte, che “non è il momento”: sembra essere dei pochi consapevoli che gli interventi esigono dei contesti, una opinione pubblica pronta ad accoglierli e a farli suoi, una pianificazione accurata. Basterebbe aver letto qualche intervento più politico del buon Keynes (che ebbe nel maestro di Draghi Federico Caffè uno dei diffusori nell’Italia degli anni Quaranta e Cinquanta) per rendersi conto di quale consapevolezza di questo mix ci fu negli anni della Grande Depressione fra le due guerre.

Impegnati nell’avvio del PNRR, come il premier ci ha ricordato giusto l’altro ieri, sarebbe bene concentrarsi su quello, con l’impegno da lui ribadito che “nessuno sarà lasciato indietro”, anziché correre a fare il teatrino in cui gli uni devono dire “cose di sinistra” e gli altri “cose di destra” (riconoscersi  nelle maschere della commedia dell’arte dà tranquillità come ogni stereotipo, ma non ha mai risolto alcun problema).


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Stefano Mandarano

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