Matteo Salvini e Mario Draghi
4 minuti per la letturaLE FIBRILLAZIONI nella maggioranza non sono finite. Lo ha testimoniato ieri il ritardo nella convocazione del consiglio dei ministri, segnale abbastanza evidente che si faceva fatica a trovare la quadra come avrebbe detto Bossi. Certamente ci sono problemi di comunicazione anche con Bruxelles e non sappiamo quali siano: ovvie ragioni invitano a non rendere note questioni che potrebbero innescare ulteriori polemiche politiche (l’antieuropeismo è ancora presente tanto dentro quanto fuori il parlamento).
Si può capire che le tensioni nella compagine di maggioranza non aiutino l’interlocuzione con gli uffici della Commissione Europea, proprio perché assomigliano sempre più a temi da bandierine di partito piuttosto che ad argomenti che hanno a cuore una progettualità di lungo periodo. La proroga al 2023 del superbonus al 110% nelle ristrutturazioni edilizie non è un intervento strutturale, per quanto si possa capire che è molto gradita tanto all’opinione pubblica quanto al settore dell’edilizia. La fine di quota 100 per l’età pensionabile rientra nelle misure che favoriscono una quota anche abbastanza ristretta di cittadini senza porsi il tema della sostenibilità di un sistema previdenziale che se salta ne penalizzerà molti di più. Ancora peggio per quanto riguarda provvedimenti fantasiosi come il cash back o la lotteria degli scontrini.
Non è esibendo un dibattito su argomenti del genere che si accrescerà la affidabilità e credibilità del nostro paese in Europa, per quanto tutti sappiano che ovunque la competizione politica è fatta anche di pressioni clientelari: solo che bisogna cercare di non andare oltre certi limiti. Più pesante l’osservazione che fa Giorgia Meloni che parla di un parlamento espropriato perché certo discutere di un piano di oltre 300 pagine avendolo ricevuto un paio di giorni prima del dibattito alle Camere non è il segnale che il governo si aspetta qualcosa di significativo da quelle sedi.
Naturalmente bisogna valutare quanto di propaganda ci sia in questo modo di presentare le cose. E’ poco credibile che non ci siano state interlocuzioni fra chi lavorava alla stesura dei piani e i partiti, anche se queste, per ragioni che abbiamo richiamato più volte, sono state tenute sotto traccia. Non è neppure credibile che queste interlocuzioni abbiano del tutto lasciato fuori FdI in quanto partito di opposizione. E’ probabile invece che questi scambi si siano tenuti sulle generali, perché il clima di fiducia reciproca di questi tempi è piuttosto basso.
Quale sia la situazione sta sotto gli occhi di tutti. I partiti sono impantanati nella preparazione della tornata elettorale d’autunno. Ciascuno lo fa con il proprio stile, ma ci lavorano intensamente tutti e non certo in uno spirito di fair play che tenga conto del momento delicato che stiamo vivendo. In più incidono moltissimo due fatti che mettono in discussione componenti centrali dell’attuale maggioranza. Da una parte abbiamo la crescente e nervosa competizione fra Lega e Fratelli d’Italia, dall’altra lo stato di crisi sempre più evidente del movimento Cinque Stelle. Salvini è chiaramente un leader in grande tensione. Non rinuncia a far campagna elettorale su ogni argomento gli consenta un po’ di demagogia, cosa non difficile vista la natura di suo piuttosto scivolosa del tema maggiormente sentito dall’opinione pubblica, cioè quello delle misure per il contenimento della pandemia.
Al tempo stesso ha iniziato a spandere in giro rassicurazioni sul fatto che non ha alcuna intenzione di sfilarsi dalla maggioranza governativa. Non è che lui voglia più di tanto essere di lotta e di governo: è che il suo elettorato è diviso, non sappiamo quanto equamente, fra le due posizioni e la prima si presta ad essere sfruttata dalla Meloni, che invece alla dimensione di governo non può arrivare. Quanto il leader leghista potrà andare avanti con questa ambigua posizione non è facile da prevedere. I Cinque Stelle sono chiaramente nel marasma. La rottura con Casaleggio jr. che evidentemente ha problemi economici per tenere in piedi la sua azienda non è una questioncella da poco. A parte le faccende per così dire materiali (tipo l’acquisizione dell’elenco degli iscritti), c’è il fondamentale problema di immagine. Il figlio del co-fondatore di M5S accusa di tradimento degli ideali originari ed a rispondere non c’è Grillo, insabbiato a sua volta in guai personali, ma neppure qualcuno dei leader della prima ora: il dovere di rispondere dovrebbe ricadere su Giuseppe Conte, che non è solo un non militante acquisito di recente, ma anche uno che è stato palesemente chiamato per rimodulare, se non per rifondare il movimento (dunque poco credibile come difensore delle ortodossie originarie). In una situazione del genere alla maggioranza di governo manca un perno politico su cui ruotare.
Non può essere Draghi che, almeno fino ad ora, al contrario di quel che avvenne con Monti, si tiene alla larga dall’idea di stimolare la formazione di un suo partito. Non riesce neppure ad esserlo il PD che non ha forza sufficiente per imporre agli altri la sua centralità e che è percorso a sua volta da articolazioni correntizie che vanno al di là di quelle alcune figure conosciute per la loro presenza mediatica (una analisi della situazione di quel partito sui territori spiegherebbe molto del suo attuale impasse). E’ in queste condizioni che Draghi presenterà la prossima settimana alle Camere il suo PNRR: una prova tutt’altro che tranquilla.
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